QUANTE CALORIE SERVONO PER COSTRUIRE UNA CASA?
Il mondo antico ha eretto colossali edifici grazie all’abbondanza di cibo disponibile per la forza lavoro. Poi, sono progressivamente servite fonti energetiche come legna, carbone e petrolio
Quante calorie ha il Partenone? La domanda pare bizzarra ma è più che lecita, certo non a fini dietetici ma da una prospettiva storiografica che punta a sostituire, nell’osservazione dell’architettura, le chiavi interpretative più consolidate con un’attenzione al contesto energetico da cui nacquero i capolavori del passato.
«La forma segue il combustibile», scrive lo storico inglese Barnabas Calder in Architettura ed energia. Dalla preistoria all’emergenza climatica, storpiando uno dei mantra del progetto novecentesco - form follows function - per proporre una «storia dell’energia dell’architettura». La tesi è lineare: l’energia è un fattore vincolante per il costruire, tanto quanto la forza di gravità; perciò dalle sue declinazioni (quantità, qualità, costanza e durata) dipende che cosa viene edificato, come e dove. Insomma, alle vitruviane firmitas, utilitas e venustas - e a tutte le successive categorie - dovremmo sostituire legna, carbone e petrolio, oppure joules, calorie e kilowattora, per comprendere appieno di che cosa sono fatti grattacieli e templi, piramidi e aeroporti, case e chiese.
Calder parte dalla preistoria per dimostrare che fu un «surplus di energia» ad avviare lo sviluppo dell’architettura; quando, nei villaggi antichi, i contadini producevano abbastanza calorie, qualcuno si poteva occupare della decorazione della casa del capo. Nelle società agrarie il principio si estese fino alla costruzione di monumenti come la piramide di Cheope, resa possibile dal surplus garantito dalla fertilità dei terreni (Erodoto racconta la dieta degli operai: grano con contorno di ravanelli, porri e cipolle). Corrispondenze tra boom agricolo e boom edilizio sono proposte anche per la Roma imperiale e la Cina della dinastia Song, grazie a grano e riso in abbondanza.
Nella prima parte del libro, che salta da Uruk ad Angkor Wat, da Damasco a Firenze, tali analogie e nessi causali sembrano talvolta riduttivi, con la spiegazione «energetica» che perde vigore in una narrativa (volutamente) semplificata. Più specifica e calzante è la seconda parte, dedicata allo sfruttamento dei combustibili fossili, d’un tratto capaci di stravolgere il paradigma energetico - e architettonico - esistente.
Mentre nei secoli precedenti le attività produttive facevano i conti con i limiti di risorse come la legna, con il carbone l’aumento della domanda di energia stimolava la creazione di infrastrutture dedicate, mantenendo stabili i prezzi e dunque suggerendo il modello di crescita che da allora avrebbe dominato. Ciò valse anche per le città, che presto si espansero verso le campagne. Il carbone, e poi i motori a vapore, modificarono la filiera produttiva - ad esempio, facendo scendere i prezzi del ferro - e il panorama urbano (un capitolo è su Liverpool, dove insegna l’autore). Negli Stati Uniti, le inedite disponibilità di energia e le relative applicazioni (sistemi di sollevamento, saldatrici, ascensori) favorirono, con risparmio di tempo e manodopera, lo sviluppo verticale dello skyline.
Il petrolio decretò un ulteriore balzo in avanti, migliorando la qualità della vita e fomentando futurismi artistici e tecnologici che le avanguardie misero in forma con materiali ora disponibili in quantità industriali e una cieca fiducia energetica.
La sede del Bauhaus a Dessau, opera di Walter Gropius, aveva una facciata trasparente così estesa e sottile da richiedere un esercito di radiatori accesi giorno e notte (e tonnellate di carbone poste in un grande e antiestetico ammasso dietro l’edificio) per evitare che il gelo danneggiasse gli interni. Secondo Calder, da questi aspetti dovremmo trarre una lezione, dato che «non esiste nessun altro stile che offra agli studenti di oggi un modello così negativo di affrontare la relazione tra energia e architettura come il Modernismo».
Ecco un punto cruciale: la cultura architettonica, almeno in parte, è ancora dominata dai modelli formali emersi tra gli anni 20 e gli anni 60, che rispetto a noi avevano tutt’altra concezione dell’energia. Il grande Mies van der Rohe diceva che «trovare un modo per evitare che il calore entri o esca è compito degli ingegneri»; così progettava mirabili scatole di vetro, pressoché uguali a Berlino, a Chicago o a Cuba.
Dopo le crisi degli anni 70, l’approccio è cambiato solo in parte e l’architettura resta fortemente «energivora»: oggi l’attività connessa al costruire e far funzionare gli edifici è tra le prime responsabili del cambiamento climatico. In termini di risorse preindustriali, per l’odierna domanda di cemento ci vorrebbe il legname di un bosco più grande dell’Australia.
Eppure, di «sostenibilità» si parla molto. Uno dei problemi è che i sistemi di valutazione ambientali utilizzati per gli edifici (Breeam, Leed) mischiano parametri troppo diversi, la cui somma può essere fuorviante: costruzioni con alte emissioni di gas serra sono premiate con punteggi alti e così - nonostante la propaganda verde - la situazione non migliora. Nell’ultima parte, il volume prova quindi a farsi manifesto di un’architettura a zero emissioni, capace di «rimettere in discussione tutti gli assunti».
Il lavoro di Calder non è, come proclama, «il primo libro a chiedersi come l’accesso umano all’energia abbia plasmato il mondo degli edifici»; è lontano dall’erudizione di classici come La città nella storia di Lewis Mumford e non ha la radicalità del saggio militante, per una politeness che spesso mitiga invece di approfondire le critiche più efficaci. Nonostante ciò è un’opera ambiziosa e degna di nota. Il taglio divulgativo, chiaro e coinvolgente, può infatti avere un impatto sulle nuove generazioni, di cui è palpabile - anche per l’architettura - l’insofferenza verso gli schemi, i toni e le mitografie del secolo scorso.
La speranza è che simili letture possano contribuire a formare nuovi architetti - e nuovi committenti consapevoli (anche) energeticamente. Su questo, Calder è ottimista: «Dai cambiamenti radicali che saranno necessari nei prossimi anni vedremo nascere nuove forme di bellezza».
OGGI L’EDILIZIA è FORTEMENTE «ENERGIVORA» E TRA LE PRIME RESPONSABILI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Architettura ed energia. Dalla preistoria all’emergenza climatica Barnabas Calder
Einaudi, pagg. 476, € 34