Il Sole 24 Ore - Domenica

QUEL CALLIGRAFO, CHE FATTUCCHIE­RE!

Nel 1522, nella Roma infestata dalla peste, un abile copista in forza alla Camera Apostolica fece credere di poter liberare la città con il sangue di un «toro rabioso»

- Di Giacomo Cardinali | illustrazi­one di Daniele Morganti

Pandemie ed emergenze sanitarie hanno sempre avuto il potere di suscitare negli esseri umani reazioni disparate, dalla più integrale fiducia nella scienza e nella ricerca medica, ai tentativi di trovare una soluzione al proliferar­e del male, attingendo a saperi che definire arrischiat­i e improbabil­i sarebbe un eufemismo. Oggi come ieri.

Circa 500 anni fa - tanto per fare un esempio - Roma era una città confinata, a motivo di una pestilenza ingovernab­ile: i morti aumentavan­o di numero quotidiana­mente. Non c’era nemmeno il papa a fare da scudo o da riferiment­o: Leone X era morto nel dicembre 1521 e come successore era stato scelto un cardinale che non era presente al conclave e di cui non si riusciva nemmeno a ripetere il nome: Adriaan Floriszoon Boeyens d’Edel. Eletto il 9 gennaio 1522, doveva venire da Utrecht e sarebbe arrivato soltanto alla fine di agosto.

Stimolato forse dal vuoto di potere, si fece avanti un bizzarro figuro, che era già una vecchia conoscenza per più d’uno in città. Era un greco di nome Demetrio, vestito sempre allo stesso modo, che si spostava esclusivam­ente «a piede, ovunque gli bisognasse d’andare», con un’andatura costante e imperturba­bile: sarebbe rimasta la stessa «anche se fosser piovuti sassi». Alcuni avevano deciso di pedinarlo, per dissiparne il mistero, altri si erano forse imbattuti inavvertit­amente in lui, in ogni caso gli uni e gli altri avevano spergiurat­o di esserselo più volte ritrovato sotto i piedi, disteso a terra e coperto alla meno peggio; e che quello aveva sostenusem­pre to serafico che non era accattonag­gio il suo, ma semplice bisogno di «ricever l’aria del cielo puro», ché «in camera gli parea affogare». E il colmo era che si trattava «del migliore scrittore di caratteri greci, che fosse a suoi tempi». Ammirato e ricercato «per la sua scrittura bella», Demetrio il Greco risultava «stipendiat­o dalla Camera Apostolica per la Libreria Vaticana» e al servizio come copista dei più colti e fastosi prelati del tempo: non era un segreto per nessuno che il cardinale Niccolò Ridolfi l’aveva «caro» e «gli dava dieci scudi il mese».

Eppure, non dovevano sembrargli entrate congrue quelle, se proprio una ragione di denaro esattament­e una pensione di «20 ducati al meze per se e sui eriedi et successori» - è addotta dai contempora­nei a motivare l’impresa che ne avrebbe consacrato la (dubbia) fama, l’osceno caso che avrebbe riempito le cronache locali e i bollettini diplomatic­i di mezza Italia: quello appunto «dell’idolatria del toro», di cui si rese protagonis­ta in quell’agosto 1522, quando ebbe l’idea di liberare Roma dalla peste attraverso un «toro rabioso».

Che cos’altro ci si sarebbe potuti aspettare - avranno mormorato in molti - da uno che aveva cambiato nome a ogni città in cui aveva abitato «onde in Città di Castello si fece chiamare Giulio, in Firenze Giovanni, in Roma fu nominato Demetrio»? E a chi gliene chiedeva conto, rispondeva come il suo amico e sodale Tommaso Masini da Peretola, e cioè che lo faceva per ovviare alle manipolazi­oni in cui il suo nome greco, dalla fonetica esotica e malferma, finiva inevitabil­mente per incorrere. Principio questo che, se poteva avere una qualche plausibili­tà per lui che si chiamava Demetrio, molta meno ne aveva per l’amico toscano, il cui vero problema non era il nome di battesimo, ma quello che si era scelto da sé: i genitori l’avevano chiamato Tommaso, ma lui aveva deciso di farsi chiamare Zoroastro, rimasticat­o nei più svariati modi, «chi chiamandol­o Chialabast­ro, e chi Alabastro, di che forte s’adirava». Tanto per dare un’idea del personaggi­o, prima di scendere a Roma, Tommaso-Zoroastro era stato assistente di Leonardo da Vinci, a Fiesole si era lanciato nel vuoto con la macchina per volare del maestro e a Milano si era riciclato come «indovino, facendo profession­e d’arte magica».

I romani de Roma li ritenevano i tipici personaggi giunti al seguito dei papi medicei: uno fiorentino (sebbene del contado), «ghiribizzo­so molto, e fantastico», un po’ mago e un po’ metallurgo, mezzo animalista e mezzo vegetarian­o, che «non harebbe ucciso una pulcia per gran cosa, e si volea vestir di lino per non portar addosso cosa morticcia»; l’altro greco dalla mano calligrafi­ca e dalle idee balorde, claustrofo­bico e naturalist­a; entrambi, tuttavia, con un loro marcatissi­mo senso degli affari. E se Zoroastro si muoveva piuttosto nel campo dell’industria, con interessi negli apbile, palti estrattivi e minerari, Demetrio oltre a copiare codici si proponeva come incantator­e e guaritore.

Presentato­si alle autorità cittadine in pieno «tempo della mortalità», ne ottenne la (forse disperata) fiducia e poté procedere con il suo rito. Secondo alcuni, uccise il toro rabbioso, che si era fatto portare, e ne sparse il sangue «in un fonte fuor la porta di San Sebastiano, onde andò tutto il popolo a ber di quel fonte», mentre, secondo altri, lo avrebbe fatto condurre in piazza San Pietro, dove «li disse certe parole in la orechia et lo deslegò et ligò a sua posta con uno spageto a un corno, et fata certa oration al cielo, mena questa bestia al Tevere dove li fa butar di boca certo sangue, et poi sta mansueto». Molti, in ogni caso, si affrettaro­no a bere l’acqua in cui era stato versato il sangue della bestia e gridarono al miracolo: sembrò loro d’esser guariti e in un attimo «tutta Roma li coreva driedo ditto greco».

L’entusiasmo, però, scemò presto, Demetrio venne denunciato, arrestato e interrogat­o. Ne seguì una condanna «per idolatria» e il trasferime­nto in prigione, dalla quale riuscì a liberarsi tramite una rocamboles­ca fuga da Roma, dove sarebbe presto rientrato, con il suo solito passo, imperturba­bile e costante, riguadagna­ndo il suo posto di copista. Lo si trova regolarmen­te iscritto sul registro delle spese del cardinale Giovanni Salviati col compenso fisso di «giuli 4 per quinterno»: niente in confronto ai 20 ducati mensili che gli avrebbe garantito la liberazion­e di Roma dalla peste, avrà pensato rincasando con i nuovi fascicoli da copiare.

SI GRIDò AL MIRACOLO, MA L’IMBROGLIO VENNE SMASCHERAT­O. LO SCRIVANO, PERò, SE LA CAVò E OTTENNE DI NUOVO IL SUO POSTO

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