QUEL MISTERO TRA CORPO E MENTE
Un giovane studioso abbandona la ricerca prima di discutere la sua tesi di dottorato entrando in conflitto con il suo mentore che non fa progressi nello studio della coscienza
Credo di non aver mai conosciuto nessuno tra i colleghi che abbia omesso di sottolinearlo: gli unici, veri esperti sui contenuti dell’esperienza soggettiva sono stati fin qui i grandi romanzieri, da Fëdor Dostoevskij a Marcel Proust, da Gustave Flaubert a Virginia Woolf, certamente non chi ha cercato di rivelare di che cosa sia fatta la coscienza con i metodi delle scienze naturali. Tuttavia il micromondo degli scienziati della coscienza può presentare un interesse in sé stesso, soprattutto se viene descritto da un giovane alla sua prima prova letteraria, Erik Hoel, oggi in forza a Tufts University, che ha fatto il suo dottorato di ricerca con Giulio Tononi, uno tra gli studiosi più noti in quest’ambito di ricerca.
Kierk Suren, il protagonista del romanzo, sembra almeno in parte l’alter ego di Hoel: un giovane neuroscienziato che abbandona la ricerca prima di giungere alla discussione della tesi di dottorato entrando in conflitto intellettuale con il suo mentore, Antonio Moretti, nella cui figura si riconoscono alcuni tratti dello stesso Tononi.
Dopo un anno difficile trascorso a fare il barbone, il giovane Kierk torna alla ricerca scientifica grazie una prestigiosa borsa di studio di un programma avviato all’Università di New York per selezionare le migliori giovani menti in circolazione votate allo studio della coscienza. Kierk, tuttavia, è ancora arrabbiato e furioso - com’è naturale esserlo a quell’età. Per dirla con Abbie Hoffman: «Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione!»
La ragione qui ha a che fare con quello che Kierk chiama «la scopa di Occam». Non l’usuale rasoio quindi, ma la scopa quando viene usata per nascondere la sporcizia sotto il tappeto. Qual è il problema con i maturi e ormai affermati scienziati che non fanno progressi sul tema della coscienza? La scopa di Occam opera quando, argomenta Kierk, «persone intelligenti nascondono inconsciamente sotto al tappeto le verità scomode per sostenere le proprie teorie. Ecco perché di solito sono i giovani a fare dei progressi. Non perché abbiano una mente più elastica, ma perché hanno accumulato meno illusioni.»
Obiettivamente che cosa sia a livello neurale una sensazione, un’azione o una decisione non sapremmo dirlo nei termini della loro qualità esperienziale. Tuttavia abbiamo imparato molto sulle attività mentali che non si accompagnano ad alcuna esperienza consapevole. Contrariamente a quel che si crede, sappiamo parecchio dell’inconsapevole (se non dell’inconscio).
Tra i paradossi della professione vi è perciò la discrasia tra quello che ti ha condotto a diventare un neuroscienziato e quello che poi studi per davvero. Si può leggere al riguardo un dialogo illuminante nel romanzo.
«Quasi tutti i neuroscienziati che ho conosciuto sono così… noiosi, a dire la verità.»
«Ahahah, penso la stessa cosa. Ne ho conosciuti tanti, e alla domanda: “Perché siete in questo campo?”, ti rispondono tutti: “Il problema mente-corpo”. Ma in realtà nessuno di loro finisce mai per fare ricerca sull’argomento.»
Confesso comunque di provare sentimenti misti sui temi sollevati da Kierk. Ad esempio, approvo incondizionatamente il modo in cui demolisce l’idea che il cervello sia un computer. In dialogo con il suo collega Greg che un po’ in difficoltà biascica: «Be’, cioè, ok, magari [il cervello] non possiederà l’architettura di von Neumann, semmai è come un processore in parallelo. Ma è per definizione un elaboratore di informazioni.»
Al che Kierk replica: «È una totale idiozia. Qualsiasi cosa si può descrivere come un elaboratore di informazioni. Intendo letteralmente qualsiasi sistema. ”Elaborare informazioni” significa semplicemente che si verifica un cambiamento».
Ribatte Greg: «Ma, ehm, ma i computer trasformano sistematicamente gli input in output.»
«Anche in questo caso, una totale idiozia. Lo fanno pure i minerali. […] Prendono tutte le forze che agiscono su di loro e producono un output basato sul loro precedente stato.»
«Sì, però in quel caso non si tratta di simboli. Come un processore simbolico.»
«Oh, ma dai! La struttura rappresentativa di quei simboli si trova lì solo perché è stato l’uomo a designarla. Perché è una coscienza a fissarla.»
Qui Kierk ha ragione da vendere (a parte l’aspetto antropomorfico, perché di una generica coscienza si dovrebbe parlare, non dell’uomo come se fosse un caso speciale). Computare nel senso più generale del termine significa manipolare dei simboli secondo una procedura algoritmica. Ma il fatto è che la coscienza deve (dovrebbe?) essere un fenomeno fisico, non pura computazione. Infatti la coscienza non richiede un osservatore esterno per manifestarsi nella mia o nella vostra esperienza. Detto altrimenti: la computazione può essere necessaria per produrre la coscienza, ma non può essere sufficiente e questo perché la sintassi non è la semantica. Non vi può essere significato in un sistema fisico a parte quello che un osservatore esterno impone sui suoi stati. Questa è la ragione per cui una simulazione del cervello non può produrre la coscienza esattamente come una simulazione del tempo meteorologico non può produrre la neve.
Peccato però che Kierk non sia coraggioso abbastanza da uccidere il suo Maestro (o da chiedergli almeno: quando vi ucciderete Maestro?). Essere giovani, evidentemente, non è abbastanza. Kierk sembra convinto che la complessità possa fornire il quid di cui va in cerca. Ma qualsiasi misura dell’informazione, integrata o meno che sia, lascia del tutto aperto il problema della mappatura tra gli stati fisici del mondo e quelli astrattamente descrivibili dalle macchine di Turing (le quali, come mi fa notare il mio amico Giuseppe Trautteur, sono oggetti materialissimi che si trovano nei miliardi di CPU dei nostri dispositivi) e non c’è modo di far apparire magicamente la mappatura, il significato, dalla complessità della sintassi.
Fatemi dire, però, che il romanzo di Erik Hoel non è noioso e cervellotico come la lettura di questa contorta recensione sembra suggerire, al contrario tra deliranti incubi a occhi aperti, organoidi cerebrali, macachi con elettrodi in testa, la congiunzione misteriosa di mente e corpo che si palesa in Carmen, l’avvenente collega neuroscienziata di Kierk e, sullo sfondo, una fascinosa New York notturna, vi divertirete assai a leggerlo, come mi sono divertito io.
IL PROTAGONISTA SEMBRA UN ALTER EGO DELL’AUTORE, MENTRE NEL MAESTRO SI RICONOSCONO I TRATTI DI GIULIO TONONI
Le rivelazioni
Erik Hoel
Carbonio, pagg. 416, € 19