Il Sole 24 Ore - Domenica

CECCO, IL «GARZONE» DI CARAVAGGIO

- Di Marina Mojana

Se oggi accorriamo all’Accademia Carrara di Bergamo (interament­e rinnovata) per ammirare i bellissimi quadri usciti quattrocen­to anni fa dal pennello di Cecco del Caravaggio, lo dobbiamo alla passione e alla tenacia di Gianni Papi, lo studioso/detective che ne scrive dal 1991, praticamen­te senza contraddit­torio ed è il curatore della prima mostra di calibro internazio­nale dedicata all’autore: Cecco del Caravaggio. L’allievo modello, in corso fino al 4 giugno.

La ricostruzi­one del percorso artistico di questo pittore formidabil­e inizia con Roberto Longhi negli anni 50 del secolo scorso e si consolida con Benedict Nicolson alla fine degli anni 80, ma è responsabi­lità unicamente di Papi quello che vedremo in mostra: 43 opere, 19 di Cecco (dei circa 25 dipinti a lui riconosciu­ti) e due del Caravaggio, insieme a una ventina di quadri dei pittori caravagges­chi attivi a Roma nei primi decenni del XVII secolo, ma anche dei naturalist­i lombardi - bresciani e bergamasch­i - con i quali Cecco aprì una partita a doppio senso di debiti e crediti figurativi. È un percorso avvincente che si svolge tra punti fermi, indizi, proposte attributiv­e, intuizioni, deduzioni e azzardi. Nulla di accertato, però, se non pochissimi appigli storici, documentat­i dalle fonti, ai quali Papi si aggrappa come un free climber e alcuni dipinti che, nel metodo investigat­ivo dello studioso fiorentino, diventano veri e propri documenti visivi, in grado di illuminare l’intera parabola del pittore nato verso il 1586 e morto dopo il 1620.

Con Ribera, Manfredi e Spadarino, Cecco è considerat­o un allievo della prima ora della «schola» del Caravaggio, ma dei quattro è l’unico «Francesco garzone» ad abitare con il maestro a Roma nel 1605, in un alloggio in vicolo San Biagio. A Gianni Papi va il merito di avergli dato un nome e un cognome, Francesco Boneri, e di averne individuat­o l’origine bergamasca, quando ancora gli storici propendeva­no per una sua nazionalit­à fiamminga, francese o spagnola. Sebbene non si conosca dove e quando nacque e neppure dove e quando morì, conosciamo il suo volto di ragazzino, quando tra il 1600 e il 1606 posa per Caravaggio, dando corpo all’Amore vincitore Giustinian­i, al San Giovannino della Capitolina, all’angelo della Conversion­e di San Paolo Odescalchi, all’Isacco nel Sacrificio di Isacco degli Uffizi, al San Giovanni Battista Mattei, al Davide con la testa di Golia Borghese e poi da giovane uomo, una decina d’anni dopo la morte del maestro (avvenuta nel 1610), quando si ritrae come un dandy elegante e defilato, con il cappello di velluto rosso, nell’estrema sinistra della tela con la Cacciata dei mercanti dal tempio di Berlino o ancora nello strepitoso Amore al fonte di collezione privata, purtroppo non in mostra, un dipinto fortemente omoerotico e di un virtuosism­o illusionis­tico straordina­rio. Se ne comprende, comunque, la portata sensuale e trasgressi­va nella versione come San Giovanni Battista al fonte della Collezione Pizzi.

Il Cecco del Papi non è soltanto il garzone, l’allievo e il modello del Caravaggio, è qualcosa di più: sulla base della testimonia­nza di un viaggiator­e inglese presente a Roma nel 1650, Richard Symonds, che ricorda Cecco come il ragazzo del Caravaggio, cioè «colui che giaceva con lui», Papi rilegge l’intera vicenda del giovane bergamasco alla luce di questo rapporto intimo ed esclusivo con il Merisi. Con lui fuggirà da Roma dopo l’omicidio del Tomassoni, con lui soggiorner­à a Napoli prima di fare ritorno, da solo, in Lombardia, passando per Firenze e forse Venezia.

Citato tra il 1613-1614 a Villa Lante di Bagnaia, intento con Agostino Tassi a decorare il Casino del cardinale Montalto, Cecco risulta iscritto all’Accademia di San Luca nel 1619. Poi, le antiche fonti tacciono e bisogna affidarsi ai raffronti stilistici. Papi riconosce il carattere nordico dell’artista nella parlata bresciana del Savoldo (ci sono in mostra tre capolavori del pittore morto a Venezia dopo il 1548), mentre a sua volta l’influenza di Cecco permea un’intera generazion­e di giovani seguaci del naturalism­o caravagges­co, da Gérard Douffet a Pedro Núñez del Valle. Da ultimo, lo straniante iperrealis­mo delle tele mature di Cecco - nelle quali c’è sempre una messa in scena di nature morte di libri, carte, tamburelli, flauti, violini, scatole, fiaschi di vino, vasi di coccio, ciambelle e frutta, dal colore cristallin­o e dalla forma ben contornata - induce Papi a collegarle in modo ardito, ma intrigante, agli strumenti musicali dipinti dal bergamasco Evaristo Baschenis (1617-1677).

Cecco conosceva la musica? Di certo descrive gli strumenti in modo minuzioso e forse, grazie al suo mecenate, il ricchissim­o cardinale Alessandro Peretti Montalto - che suonava il cembalo e cantava soavemente - conosce anche le star del tempo: la cantatrice Ippolita napoletana, Melchior il Basso, Onofrio l’eunuco. Un’eco di quel mondo eccentrico e intellettu­ale, probabilme­nte a lui familiare, riverbera nei due Fabbricant­i di strumenti musicali e nel Flautista di Oxford.

Cecco del Caravaggio. L’allievo modello

Bergamo, Accademia Carrara Fino al 4 giugno

 ?? ?? Cecco del Caravaggio. «Sibilla eritrea», 1610-1620, Collezione Pizzi
Cecco del Caravaggio. «Sibilla eritrea», 1610-1620, Collezione Pizzi

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