«IL TAMERLANO», DELIZIOSO PASTICHE VIVALDIANO
Ottavio Dantone cuce Recitativi e Arie regalandoci così un inedito Prete Rosso da palcoscenico. Bene le voci, tra cui spicca quella del sopranista Fiorio nel ruolo di Andronico
Coronata di gigli e di rose, con l’amore ritorni la pace: facile nel Settecento sognare, placare in palcoscenico guerre tra acerrimi nemici. Bastava intonare un festoso coretto, floreale e pacifista, giusto sul calare del sipario, ed ecco concluse insieme sia una guerra sia l’opera, in questo caso Il Tamerlano di Antonio Vivaldi. A riproporlo per la prima volta - a distanza vistosa dal debutto a Verona, nel 1735 - in forma scenica e completo di Recitativi e Arie mancanti, è Ottavio Dantone, che provvede a un lavoro amoroso e di creativa filologia sulla partitura (dove è indicato con il titolo complementare di Bajazet) concertando poi dal clavicembalo un manipolo di voci, alcune fide e note, altre new entry, intrecciate con i suoi magnifici della Accademia Bizantina. Persino i diffidenti più accaniti, i timorosi di noia infinita devono ricredersi: fatta così, l’opera barocca è un incanto.
A offrirla come bocconcino prelibato, che qualifica i nostri teatri e li colloca tra i più chic e internazionali, è in maniera abbastanza sorprendente una cordata di provincia, capeggiata dall’Alighieri di Ravenna. Qui il progetto è nato, costruito in modo da agevolmente transitare tra Piacenza, Reggio Emilia e Modena. Saggiamente pianificato nei fine settimana, avrà come ultima tappa il Giglio di Lucca, il 17 e 19 febbraio prossimi. Impianto snello, su un monolite rotante e proiezioni, la regia di Stefano Monti sceglie di raddoppiare ogni cantante con un danzatore. All’inizio la confusione è totale. I giovani della DaCru Dance Company, nelle coreografie di Marisa Ragazzo e Omid Ighani, si accoppiano ciascuno a un solista, ma in formato mignon. Identici i costumi, più futuristi che orientali (belli, il tratto più innovativo dello spettacolo) identico trucco e parrucco. Sembrano avatar, gli uni agitati, gli altri immobili. Insolito taglio, discutibile, comunque è un modo per interrogare la drammaturgia barocca.
Il Tamerlano musicalmente ha un problema: opera tarda, delle ventuno Arie che lo compongono, otto vengono recuperate dal compositore da titoli precedenti e altrettante portano la firma di altri. Un bel pasticcio. Anzi, un delizioso, eccentrico pastiche. Geniale nel testimoniarci la duttilità di quei disegni musicali nel rivestire parole diverse; nel giocare con gli stessi abiti, tagliando storie nuove. Vivaldi va riscoperto: in disco ormai lo si è fatto. In scena aspetta ancora una rinascita. Salvo errori, non risultano altri repêchage nel 2023 in Italia, a parte questo dei “Bizantini”. Ovviamente tutti adoriamo il Tamerlano di Händel. Ma non scordiamoci del veneziano.
Una miniera, ad esempio - e Dantone li accarezza musicalissimo - i Recitativi: ben realizzati e torniti, stanati nella miriade di parole ed espressioni moderne (e di armonie, ancor più) suonano così ricchi di teatro e di racconto, che stiamo lì ad aspettarli. Per delibarli nota su nota. Le Arie certo sono magnifiche, sempre cangianti: i loro “da capo” possiedono una tale naturalezza di espressione, con le piccole o grandi variazioni sciolte, senza meccanicità, quasi fossero delle improvvisazioni, che si gustano come creature astratte, per il puro piacere dell’orecchio. Tuttavia ormai non potrebbe più fare a meno dei Recitativi, e proprio in questa esecuzione la reciproca necessità si fa tanto apprezzare. Perché quando ben detti, nel porgersi attoriale della parola, ottengono finalmente il meritato riscatto. Altro che tagliarli, come si faceva un tempo. Tra l’altro Agostino Piovene, librettista conte e dotto, non dei più noti, li spezia con il lessico caratteristico veneziano, misto di alto e basso, e la sala sorride, annuisce, commenta. E Vivaldi lo segue alla lettera nei Recitativi semplici, e non parliamo dei pochi eletti “accompagnati”, nell’ultima parte del Tamerlano. Ampi ed emozionanti, in anticipo su Gluck.
LA REGIA DI STEFANO MONTI SCEGLIE DI RADDOPPIARE OGNI CANTANTE CON UN DANZATORE, COME UN AVATAR
Aristocratica, bel contralto, spicca nella compagnia Delphine Galou, elegante per timbro e fraseggio, l’italiano ormai quasi impeccabile, l’intonazione qui perfetta: tragedienne nell’appaiare i tratti nobili di figlia del re dei Turchi con la determinazione di assassina. La vittima mancata, l’innamorato e infantile Tamerlano, re dei Tartari, è Filippo Mineccia, potenza controtenorile e salti di registro impressionanti. Al padre, il suicida Bajazet, Bruno Taddia consegna scatti da baritono feroce, irridente, da sfrontato prigioniero. Canta benino l’Irene di Shakèd Bar, corretta nella parte defilata di Idaspe è Arianna Vendittelli. Ma il vero divo, punta di diamante della compagnia, è il virtuosismo immacolato di Federico Fiorio, sopranista nel ruolo di Andronico, dalla voce luminosa, argentea, da un altro mondo: le sue Arie autentiche apparizioni. Tutti insieme comunque brillano favoriti dalla acustica avvolgente del Comunale PavarottiFreni di Modena. Pubblico entusiasta, al matinée della domenica, che ritma a suon di applausi il bis del coretto finale, «Coronata di gigli e di rose». Perché i sogni di pace in musica si avverano.
Il Tamerlano
Antonio Vivaldi
Direttore Ottavio Dantone Regia Stefano Monti Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni