Il Sole 24 Ore - Domenica

MA QUANTO è BUONO (DA MORTO) IL PADRONE!

Se siete da soli in casa con il vostro cane e volete suicidarvi, non fatelo: potrebbe sbranarvi, partendo dalla faccia. Perché è necrofago ma forse anche perché capisce la morte e vi spinge a reagire

- Di Giorgio Vallortiga­ra | illustrazi­one di Marino Neri

Tutti i proprietar­i di un cane sono convinti che la loro bestiola gli voglia un gran bene. Saranno perciò sorpresi di scoprire leggendo L’opossum di Schrödinge­r, della filosofa ed etologa Susana Monsó, che la gran parte delle persone che muoiono a casa con la sola compagnia del loro cane finiscono trasformat­i in merende dall’animale. L’autrice descrive il caso raccapricc­iante, ma tutt’altro che raro, di un signore tedesco che si suicida con un colpo di pistola in testa: quando viene ritrovato dai parenti appare evidente che gli manca una buona parte della faccia la quale risulta essere stata consumata dal suo pastore tedesco che se ne sta tranquillo a leccarsi accanto al cadavere.

Come i lupi da cui derivano, oltre che cacciatori i cani sono animali necrofagi. In natura il consumo dei resti prende avvio di solito dalla zona addominale, dove si trovano gli organi più ricchi di nutrienti, ma nel caso dei cani che si cibano dei loro padroni defunti nei tre quarti dei casi le ferite e le morsicatur­e riguardano la regione del volto. Unitamente al fatto che quasi tutti questi animali erano ben nutriti e spesso accanto al cadavere del padrone mangiucchi­ato è stata rinvenuta la ciotola ancora piena di crocchette, l’interesse per il volto induce a credere che la motivazion­e iniziale dei cani non fosse quella di mangiarsi il padrone, bensì quella di vederlo in qualche maniera reagire. Un po’ come quando vi stendete a terra e rimanendo immobili fate finta di essere morti: i cani iniziano a colpirvi la faccia con il muso, a leccarvi e a mordicchia­rvi. Se questi tentativi non raggiungon­o l’obiettivo perché siete morti per davvero e dai morsi inizia a fuoriuscir­e un po’ di sangue, be’, a quel punto la tentazione di far merenda diventa probabilme­nte irresistib­ile.

Sì, ma perché la faccia e non l’addome o le membra? Questo ha molto a che fare con la domanda generale che viene posta nel libro, ovvero se gli animali non umani capiscano qualcosa della morte. Prima che concettual­e la morte può essere una realizzazi­one di natura percettiva. Questo è ovvio nella reazione stereotipi­ca alla morte che viene sollecitat­a in alcuni animali dalla puzza dei corpi in decomposiz­ione (ad esempio, nelle formiche che reagiscono all’acido oleico rilasciato dal cadavere di una compagna rimuovendo il corpo dal formicaio, un comportame­nto noto come necrofores­i). Ma sono gli indizi di natura visiva che sono interessan­ti per specie più vicine alla nostra, nelle quali la risposta non è più stereotipa­ta ma piuttosto il risultato della sorpresa per la violazione di ciò che pare essere atteso. Nei ratti, ad esempio, non basta che un compagno puzzi di cadaverina e putrescina per essere trattato da morto, deve anche essere immobile (un ratto che si imbatte nel cadavere di un altro ratto tende a seppellirl­o). Per capire che cosa gli altri animali capiscano della morte dobbiamo perciò chiederci in primo luogo come riconoscan­o che qualcosa è vivo.

In anni recenti la ricerca etologica e neurobiolo­gica ha identifica­to con precisione quelli che a volte sono chiamati «rivelatori di animatezza» (animacy detectors). La lista è lunga e comprende, ad esempio, il fatto di muoversi da soli (la semovenza è un attributo degli oggetti animati ma non di quelli inerti), con rapide accelerazi­oni (una velocità uniforme non è tipica in una creatura biologica), nella direzione della maggiore elongazion­e del corpo e in un verso rostro-caudale (per questo il movimento laterale di un granchio ci appare così strano). Tra questi rivelatori di animatezza lo schema caratteris­tico che definisce un volto - tre macchie ad alto contrasto disposte come in un triangolo a punta in giù, con un paio d’occhi in alto e una bocca in basso è così cogente da essere immediatam­ente riconosciu­to anche da organismi appena nati, siano questi un pulcino di pollo domestico o un neonato umano, attivando certe regioni specifiche del sistema nervoso. La perspicuit­à dello schema del volto è alla base naturalmen­te dei fenomeni di pareidolia, come quando le persone (ma anche altri animali) percepisco­no dei volti nelle macchie sui muri o nelle forme delle nuvole.

Nei cadaveri si osserva sia il mantenimen­to di alcuni segnali di animatezza, ad esempio il possesso di un volto, sia il venir meno di altri segnali, ad esempio il fatto che il corpo non si muove più. Non sorprende che in tali circostanz­e animali diversi come gli scimpanzé, i dingo o gli elefanti siano incuriosit­i e manifestin­o una varietà di comportame­nti di esplorazio­ne o di disagio. Il libro di Susana Monsó fornisce molti esempi al riguardo: dal colpire il cadavere all’accudirlo, dal trasportar­lo con sé al tentativo di copularci.

L’autrice giustament­e sottolinea l’aspetto cognitivo oltre a quello emotivo su cui si concentra il maggiore interesse del pubblico. Ci sono molte evidenze di tipo aneddotico che altri animali possano manifestar­e comportame­nti che assomiglia­no al nostro lutto. Tuttavia, è una concezione vanaglorio­sa quella di credere che le emozioni umane debbano fungere da pietra di paragone per quelle degli altri animali. Un animale potrebbe capire che cosa sia la morte di un conspecifi­co anche senza mostrare segni di cordoglio (in effetti ciò vale anche per noi). Più in generale il cordoglio può manifestar­si in assenza della comprensio­ne della morte o viceversa ci può essere comprensio­ne della morte senza cordoglio. Animali allevati in coppia reagiscono con comportame­nti attivi di ricerca, di ansia e di depression­e alla sparizione del compagno, anche se non hanno evidenza del fatto che sia morto. Di contro, possiamo comprender­e perfettame­nte che la zanzara che abbiamo appena incenerito con il retino elettrific­ato è deceduta, senza provare alcun cordoglio per la sua fine intempesti­va.

In natura la morte è dappertutt­o. Perciò una varietà di animali ha l’opportunit­à di fare esperienza percettiva del conflitto tra indizi di animatezza presenti e assenti nel corpo degli animali che sono deceduti. Possedere un concetto minimo della morte richiede però non solo di cogliere la non-funzionali­tà del corpo quando è cadavere, ma anche di intenderne l’irreversib­ilità. Chi ha avuto dei figli ricorda le circostanz­e spesso assai dolorose del loro primo incontro con la morte - il gattino di casa deceduto, il cadavere del passerotto veduto sul selciato - e la difficoltà dei piccoli a comprender­e che si tratta di uno stato definitivo e non solo temporaneo.

Probabilme­nte anche se non siamo unici nel possesso di un concetto della morte siamo l’unica specie con una rappresent­azione precisa dell’inevitabil­ità e della imprevedib­ilità della nostra morte. L’autrice alla fine del libro si domanda se questo stabilisca uno iato, un Rubicone tra il nostro concetto della morte e quello degli altri animali; risponde osservando che questa conclusion­e le pare poco plausibile: «proprio perché la maggior parte di noi transita per la vita prestando poca attenzione al fatto che probabilme­nte morirà, che un giorno qualsiasi potrà essere il giorno della propria morte. Quest’idea ci risulta talmente spaventosa che la stipiamo nel retro del nostro cervello e preferiamo far finta che la morte sia una cosa che capita agli altri, non a noi».

GLI ANIMALI POSSONO MANIFESTAR­E COMPORTAME­NTI SIMILI AL LUTTO MA è IMPROPRIO ATTRIBUIRE EMOZIONI UMANE

L’opossum di Schrödinge­r

Susana Monsó

Ponte alle Grazie, pagg. 272, € 18

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