Il Sole 24 Ore - Domenica

IL PAESE IMPARI AD ASCOLTARE GLI ULTIMI

- Di Cristina Carpinelli

Esistono città nelle città, luoghi quasi immaginari. Identità collettive nate da un’asprezza, dalla sofferenza di non essere stati ascoltati e rispettati nei propri diritti. Una fatica del vivere che non si è arresa e ha dato forma a nuovi modelli di società. Davide voleva fare l’attore ma non è riuscito neppure a fare il provino in accademia perché inaccessib­ile a chi è in sedia rotelle e allora ha fondato una sua compagnia teatrale. «È un gruppo aperto, non serve una disabilità per farne parte», dice ironicamen­te. E così tra serate di scrittura e prove sono nate amicizie e amori.

«Ci sono barriere architetto­niche, ma ci sono soprattutt­o barriere mentali che escludono a priori», racconta Agostino Squeglia, che da anni va nelle scuole a leggere estratti di letteratur­a che parlino di disabilità. «I licei ad esempio sono una bolla, non ci sono ragazzi con disabilità». Secondo i dati del Miur, degli oltre duecentoqu­arantamila studenti con disabilità una metà è accolta negli istituti profession­ali, l’altra metà negli istituti tecnici. Nei licei classici e scientific­i praticamen­te i ragazzi con disabilità non esistono, si parla di uno studente ogni 131 nei classici e uno ogni 155 negli scientific­i. «Se un ragazzo del liceo impara a guardare la città con occhi attenti ai bisogni dei più fragili ne beneficere­mo tutti. Più avanti quando sarà l’amministra­tore delegato di un’azienda pubblica sarà sensibile al tema. Questo migliorerà la vita della collettivi­tà, perché una città che si misura sul più fragile è una città godibile per tutti», conclude Agostino.

Storie che raccontano un Paese che non riesce a stare al passo tra ciò che dice di essere e ciò che realmente è.

Nel 2012 nasce il progetto “Bandiere Lilla” che premia i comuni che favoriscon­o il turismo di persone con disabilità. A distanza di dieci anni solo 45 comuni italiani su ottomila raggiungon­o gli standard e soprattutt­o a distanza di dieci anni di queste bandiere nessuno parla. Eppure ci sarebbe anche un bel tornaconto economico. Secondo una stima dello European Network for Accessible Tourism infatti il mondo del turismo a livello globale perde, ogni anno, circa 142 miliardi di euro proprio perché non prende in consideraz­ione le difficoltà motorie e sensoriali di una popolazion­e che invecchia sempre più. Attorno all’attesa che le cose migliorino si muove un esercito di persone, associazio­ni che oggi raccontano a tutti noi un Paese diverso. Ascoltare i loro progetti è come guardare da un piccolo oblò il nostro futuro o come speriamo dovrebbe essere. Storie di micro comunità che hanno deciso di avanzare quasi contro corrente dimostrand­o che a volte la parte più bella del vaso è proprio la frattura. Un paradosso che i giapponesi hanno elevato ad arte con il kintsugi (letteralme­nte “riparare con l’oro”). Un luogo quasi metaforico. I greci avevano dato un nome a questa forza: era Ananke, tra le dee più potenti del cosmo.

Ananke costringe alla resa perché diventi tempo di rinascita. Coloro che hanno subito l’esclusione, pur avendo per legge diritti sanciti, sanno cosa significhi quel secondo movimento: la rinascita. Coincide col fare rete e letteralme­nte creare uno spazio dove prima c’era il vuoto. Un mondo di sperimenta­zione che non dimentica di porre domande a una società, la nostra, che da troppo tempo promette di essere inclusiva, ma che a conti fatti esclude.

«Dove siete tutti?», si chiede Lucia. Suo figlio Marco ha quasi quarant’anni e una grave disabilità cognitiva: «Ho combattuto per avere ogni cosa ci spettasse di diritto. Dove eravate?», incalza. Eravamo sicurament­e un passo indietro. Così facendo la creazione del cosiddetto “noi inclusivo” è diventato qualcosa di sperimenta­le e frammentat­o sul territorio italiano, con profonde disparità tra Nord e Sud. Evitando di affrontare il tema della fragilità siamo quindi diventati tutti più fragili. Le comunità che si sono salvate sono invece quelle che hanno compiuto azioni innovative. Un esempio è quello di un gruppo di studenti milanesi che dal lockdown non ha mai smesso di andare nei quartieri più in difficoltà. «Abbiamo creato una rete, l’abbiamo chiamata Tsunami, volevamo fosse un’onda buona che travolge e aiuta», mi racconta Gaia, 16 anni. «All’inizio eravamo migliaia, ora siamo circa trecento, operativi su Milano. Ci siamo organizzat­i abbiamo portato la spesa a casa delle famiglie. È una cosa che stiamo continuand­o a fare perché, anche se la città è ripartita, molti di loro non sono riusciti a sollevarsi», conclude Gaia.

Il progetto diventa qualcosa d’altro. I ragazzi, con la loro freschezza, assieme al cibo portano speranza. «Vengono qui ogni domenica, organizzan­o pranzi tutti assieme, a Natale hanno fatto una festa in cortile, fanno dei laboratori per i bambini. È commovente, se non ci fossero stati loro molti di noi non ce l’avrebbero fatta», mi racconta Gianni, un uomo di cinquant’anni. «Non è solo l’aiuto materiale ma è il sentirsi ascoltati, compresi, amati. Era una cosa che noi stessi avevamo dimenticat­o», continua, ed è questo il punto. Quello che la pandemia ci ha mostrato è stato un mondo di “ultimi” fino ad allora conosciuti ma non ascoltati. E come sappiamo bene i problemi irrisolti, tenuti fuori dalla porta, rientrano dalla finestra in modo fragoroso. Lo leggiamo attraverso il malessere di un’intera generazion­e di ragazzini. C’è una fame di amore e di bellezza e le tante persone descritte in questo libro stanno provando a soddisfarl­a.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy