UNA VITA POLITICA ALL’INSEGNA DELLA SICUREZZA
«Ho combattuto sui campi di battaglia per difendere Israele; come diplomatico nei forum mondiali ho respinto gli attacchi alla sua legittimità; come ministro delle finanze e premier ho cercato di moltiplicare il suo potere economico e politico». Dovrebbe essere l’ammissione di una vita fortunata, soprattutto perché tutte queste attività, dal soldato allo statista, Benjamin Netanyahu le ha svolte al massimo livello.
Ma ciò che emerge da My Story, la monumentale autobiografia di Netanyahu, è un pessimismo cosmico: «Non c’è longevità garantita nella vita delle nazioni». Ancor meno per lo Stato degli ebrei, nonostante i successi militari, diplomatici ed economici conseguiti anche con il suo contributo. Oggi Israele è una potenza dell’hi-tech; possiede le più efficaci forze armate nella regione ed oltre; gode di una solida e munifica alleanza con gli Stati Uniti e contemporaneamente di una più sfumata ma ugualmente efficace intesa con la Russia di Putin; nel modo arabo ha ormai più amici che nemici.
Eppure, nella penultima pagina del libro, Netanyahu sente la necessità di concludere il racconto di una vita di successi - 15 anni vissuti da premier - ricordandoci che «nelle migliaia di anni di esistenza del popolo ebraico, abbiamo goduto solo di tre periodi d’indipendenza: ottanta decenni sotto Davide e Salomone, ottanta sotto gli Asmonei, ottanta dalla creazione dello Stato moderno d’Israele». Nessuno può negare che l’Iran continui a rappresentare una minaccia (che davvero lo creda o no, per Netanyahu è un’ossessione); né che l’antisemitismo in Occidente sia un cancro perennemente maligno. La storia dello Stato d’Israele sarà per sempre segnati dall’Olocausto.
Tuttavia nella carriera pubblica e nel pensiero di Netanyahu la visione negativa di ogni evento, il costante pericolo e la conseguente necessità di bitakon- sicurezza – sono un’eredità familiare. Suo padre Benzion, importante medievalista e segretario di Zev Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista di destra, è l’uomo più importante della vita di Benjamin. Il suo pessimismo era famoso. Benzion è il coprotagonista del libro, insieme a Yoni, il fratello maggiore ucciso nel 1974 a Entebbe, durante la liberazione di centinaia di ostaggi presi dai terroristi. Il ricordo di Yoni è intenso per Bibi. In Israele molte personalità hanno un soprannome: quello di Netanyahu è Bibi.
Ma l’ansia per la sicurezza non è solo un’eredità nazionale e familiare. Per Bibi è anche un programma politico. A cominciare dall’economia. Nel 2004 Netanyahu divenne ministro delle Finanze di Ariel Sharon. Grazie alle riforme di Shimon Peres negli anni 80, all’arrivo di un milione di ebrei dall’Urss e al dividendo economico del processo di pace di Oslo (nel 1987 il bilancio della Difesa era quasi il 17% del Pil, nel ’95 meno dell’8), Israele incominciò a investire nell’hi-tech. Ma «tecnologia, scienze ed educazione da sole non ti arricchiscono. Altrimenti l’Unione Sovietica sarebbe stata fra i Paesi più ricchi del mondo», scrive Nechio tanyahu. «Il libero mercato è l’indispensabile componente». Bibi ridusse il settore pubblico e rafforzò quello privato.
Le riforme, elogiate da Milton Friedman, garantirono una crescita economica importante e sostenibile. Un risultato sono anche il 20% d’israeliani sotto la soglia di povertà, contati dal Ministero per gli Affari Sociali. È una tendenza globale ma nel mondo sviluppato Israele è il Paese con più poveri, dietro solo al Costa Rica.
Nell’analisi di Bibi il successo economico non è che il punto di partenza per conseguire la sicurezza nazionale: è lo strumento necessario per finanziare la potenza militare. La combinazione di forza economica e militare garantisce un altro potere, quello diplomatico. È l’unione di questi tre obiettivi che garantiranno la «sopravvivenza» d’Israele, dice Bibi.
My Story è ben scritto, è un compendio non banale della storia degli ultimi quarant’anni d’Israele. Ma un premier in carica che ha appena assemblato il suo sesto governo, non dovrebbe pubblicare un’autobiografia. Non tanto perché risulta un ovvio e insopportabile delitto di hybris, quanto perché continuando a gestire il potere, il protagonista rischia di smentire sé stesso. In questo caso, il pericolo è concreto. In un’intervista del 2011 gli fu chiesto come avrebbe voluto essere ricordato: «Ho aiutato ad assicurare la vita dello Stato ebraico e il suo futuro», rispose Bibi. L’esecutivo creato con i partiti nazional-religiosi, promotori di una teocrazia ebraica, è un pericolo per la democrazia e la laicità d’Israele; anche del dinamismo economico che lui aveva promosso. In un certo senso Bibi rischia di smentire l’autobiografia dei suoi primi 73 anni di vita.
In 650 pagine di testo non c’è un solo riferimento alla religione: da Ben Zion a Bibi, i Netanyahu sono sempre stati sionisti conservatori e laici. Forse anche più laici del socialista David Ben Gurion. I nemici che ne minacciavano la sicurezza erano alle frontiere d’Israele, ora sono dentro. I cancelli li ha aperti chi aveva assicurato di difenderli.
Bibi. My Story
Benjamin Netanyahu Threshold Editions, pagg. 724, $ 35