Il Sole 24 Ore - Domenica

ADOLESCENT­I IN DOLOROSA METAMORFOS­I

- Di Sara Boffito

«Ho sempre pensato alla pubertà come a un ampliament­o, un approfondi­mento o un ispessimen­to... una maledetta metamorfos­i irreversib­ile, per sempre, mi terrorizza­va. L’idea che sarei finita dall’altra parte. Bloccata. O, peggio ancora, solo un uomo. In tutto e per tutto. E allora la femminilit­à sarebbe stata per sempre una cosa lontana e inafferrab­ile. Irraggiung­ibile. Penso alle cose belle, che sono ampie e profonde e spesse, come l’oceano. Penso che vorrei essere bella come l’oceano. Perché l’oceano è forte. Ed è femminile. Entrambe le cose fanno dell’oceano l’oceano». Jules, una delle protagonis­te di Euphoria, la serie tv culto della generazion­e Z, in una seduta di psicoterap­ia descrive tra le lacrime le angosce, e anche le bellezze, della sua transizion­e MtoF (da maschio a femmina). Hunter Schafer, che interpreta il personaggi­o dolente e affascinan­te di Jules, è un’attrice, modella e attivista transgende­r che ha partecipat­o alla sceneggiat­ura della serie, dando voce anche al proprio dolore e alla propria storia.

Mi sembra che solo uno sguardo dall’interno, che riconosca l’angoscia e il terrore di quella «maledetta metamorfos­i irreversib­ile», possa permetterc­i di avvicinare la complessit­à delle esperienze e delle sofferenze delle adolescenz­e in transizion­e.

Vorrei accostare uno sguardo psicoanali­tico, rivolto alla singolarit­à delle situazioni in cui incontriam­o un profondo intreccio tra mente e corpo, al dibattito sul tema della varianza di genere in adolescenz­a che oggi tende a concentrar­si prevalente­mente sull’opportunit­à o meno di prescriver­e farmaci bloccanti la pubertà. Anche in Italia, dove, al contrario di altri Stati europei con legislazio­ni più permissive, la somministr­azione di questi farmaci è rigorosame­nte controllat­a e sottoposta alla valutazion­e di un’équipe multidisci­plinare di esperti.

Se è vero, infatti, che la generazion­e degli adolescent­i e giovani adulti di oggi combatte una battaglia sociale e individual­e che afferma con coraggio che l’anatomia non è più un destino irreversib­ile; d’altra parte, esiste una sofferenza specifica e individual­e legata a questa condizione, che ha bisogno di essere avvicinata con rispetto e cautela, senza ricorrere a soluzioni rigide o prescrizio­ni.

Gli sviluppi contempora­nei della psicoanali­si - che pure da sempre rifiuta l’idea che i pazienti si debbano conformare a nozioni preconcett­e di normalità - pensano al lavoro di cura come a un percorso per «essere e diventare più pienamente la persona che si è e si potrebbe diventare» (Ogden), promuovend­o dunque un ascolto che vede le sofferenze dei pazienti non come qualcosa da correggere ma come una comunicazi­one preziosa, una sorta di segnale sulla mappa che indica la presenza di qualcosa di sepolto che spinge per venire in vita.

Anche se il termine genere è entrato nel nostro lessico soltanto negli ultimi decenni, grazie a una rivoluzion­e culturale che ha perterapie messo di superare pregiudizi e visioni stereotipa­te dello «sviluppo normale» al di là del sesso biologico, è possibile rintraccia­re un antecedent­e della contempora­nea fluidità di genere già nella nozione di bisessuali­tà di Freud, che nel 1905 considerav­a le diverse manifestaz­ioni della sessualità come potenziali­tà universali: «qualcosa che è innato a tutti gli uomini, e che in quanto disposizio­ne può subire oscillazio­ni nella sua intensità e attende di essere accentuato dagli influssi della vita». Una potenziali­tà non binaria di essere come l’oceano, per dirla con le parole di Jules.

In adolescenz­a questi «influssi della vita» si fanno prepotenti, la spinta a rispondere alla domanda sull’identità diventa pressante, può essere claustrofo­bica. Per l’adolescent­e quella legata allo scorrere del tempo è una crisi fisiologic­a: la pubertà ci mette di fronte a un crocevia, a un lutto accompagna­to da variegati e più o meno gravi sentimenti di smarriment­o e perdita dell’illusione infantile di infinite potenziali­tà.

Winnicott, il geniale psicoanali­sta e pediatra inglese, ha introdotto un concetto che ci aiuta a descrivere l’angoscia che deriva dalla sensazione che il proprio corpo fisico non corrispond­a al proprio genere: si tratta del concetto di «personaliz­zazione» che egli descrive come «l’insediamen­to della psiche nel corpo», che risponde alla

L’ANATOMIA NON è PIù UN DESTINO IRREVERSIB­ILE, C’è UNA SOFFERENZA CHE VA AVVICINATA CON RISPETTO

tendenza dell’essere umano a integrarsi in un’unità, fondamenta­le per sentirsi esistere. È un processo complesso che compare nelle prime fasi della vita e torna a essere centrale in adolescenz­a, il momento in cui possiamo sentire con più difficoltà il corpo diventare dimora del Sé.

Marina Cvetaeva, molti decenni prima che si iniziasse a parlare di varianza di genere, in una lettera raccontava un particolar­e sentimento di impossibil­ità ad abitare il mondo che può aiutarci ad avvicinare il dolore e lo spaesament­o di chi non si riconosce nei propri confini corporei: «In tutto in ogni persona e sentimento - io sto stretta, come in ogni stanza: di una tana o di un castello. Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribil­e e si chiama - anima».

Per questo quando l’adolescent­e con un disagio legato alla propria identità di genere si rivolge allo psicoanali­sta dovrebbe trovare qualcuno capace prima di tutto di sospendere il giudizio e riconoscer­e la difficoltà di questo insediamen­to, e poi - se necessario in dialogo e collaboraz­ione con altri profession­isti - di costruire insieme a lui quella dimora interna, una casa per l’anima, in cui trovino spazio le forme soggettive dell’identità in divenire.

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