ADOLESCENTI IN DOLOROSA METAMORFOSI
«Ho sempre pensato alla pubertà come a un ampliamento, un approfondimento o un ispessimento... una maledetta metamorfosi irreversibile, per sempre, mi terrorizzava. L’idea che sarei finita dall’altra parte. Bloccata. O, peggio ancora, solo un uomo. In tutto e per tutto. E allora la femminilità sarebbe stata per sempre una cosa lontana e inafferrabile. Irraggiungibile. Penso alle cose belle, che sono ampie e profonde e spesse, come l’oceano. Penso che vorrei essere bella come l’oceano. Perché l’oceano è forte. Ed è femminile. Entrambe le cose fanno dell’oceano l’oceano». Jules, una delle protagoniste di Euphoria, la serie tv culto della generazione Z, in una seduta di psicoterapia descrive tra le lacrime le angosce, e anche le bellezze, della sua transizione MtoF (da maschio a femmina). Hunter Schafer, che interpreta il personaggio dolente e affascinante di Jules, è un’attrice, modella e attivista transgender che ha partecipato alla sceneggiatura della serie, dando voce anche al proprio dolore e alla propria storia.
Mi sembra che solo uno sguardo dall’interno, che riconosca l’angoscia e il terrore di quella «maledetta metamorfosi irreversibile», possa permetterci di avvicinare la complessità delle esperienze e delle sofferenze delle adolescenze in transizione.
Vorrei accostare uno sguardo psicoanalitico, rivolto alla singolarità delle situazioni in cui incontriamo un profondo intreccio tra mente e corpo, al dibattito sul tema della varianza di genere in adolescenza che oggi tende a concentrarsi prevalentemente sull’opportunità o meno di prescrivere farmaci bloccanti la pubertà. Anche in Italia, dove, al contrario di altri Stati europei con legislazioni più permissive, la somministrazione di questi farmaci è rigorosamente controllata e sottoposta alla valutazione di un’équipe multidisciplinare di esperti.
Se è vero, infatti, che la generazione degli adolescenti e giovani adulti di oggi combatte una battaglia sociale e individuale che afferma con coraggio che l’anatomia non è più un destino irreversibile; d’altra parte, esiste una sofferenza specifica e individuale legata a questa condizione, che ha bisogno di essere avvicinata con rispetto e cautela, senza ricorrere a soluzioni rigide o prescrizioni.
Gli sviluppi contemporanei della psicoanalisi - che pure da sempre rifiuta l’idea che i pazienti si debbano conformare a nozioni preconcette di normalità - pensano al lavoro di cura come a un percorso per «essere e diventare più pienamente la persona che si è e si potrebbe diventare» (Ogden), promuovendo dunque un ascolto che vede le sofferenze dei pazienti non come qualcosa da correggere ma come una comunicazione preziosa, una sorta di segnale sulla mappa che indica la presenza di qualcosa di sepolto che spinge per venire in vita.
Anche se il termine genere è entrato nel nostro lessico soltanto negli ultimi decenni, grazie a una rivoluzione culturale che ha perterapie messo di superare pregiudizi e visioni stereotipate dello «sviluppo normale» al di là del sesso biologico, è possibile rintracciare un antecedente della contemporanea fluidità di genere già nella nozione di bisessualità di Freud, che nel 1905 considerava le diverse manifestazioni della sessualità come potenzialità universali: «qualcosa che è innato a tutti gli uomini, e che in quanto disposizione può subire oscillazioni nella sua intensità e attende di essere accentuato dagli influssi della vita». Una potenzialità non binaria di essere come l’oceano, per dirla con le parole di Jules.
In adolescenza questi «influssi della vita» si fanno prepotenti, la spinta a rispondere alla domanda sull’identità diventa pressante, può essere claustrofobica. Per l’adolescente quella legata allo scorrere del tempo è una crisi fisiologica: la pubertà ci mette di fronte a un crocevia, a un lutto accompagnato da variegati e più o meno gravi sentimenti di smarrimento e perdita dell’illusione infantile di infinite potenzialità.
Winnicott, il geniale psicoanalista e pediatra inglese, ha introdotto un concetto che ci aiuta a descrivere l’angoscia che deriva dalla sensazione che il proprio corpo fisico non corrisponda al proprio genere: si tratta del concetto di «personalizzazione» che egli descrive come «l’insediamento della psiche nel corpo», che risponde alla
L’ANATOMIA NON è PIù UN DESTINO IRREVERSIBILE, C’è UNA SOFFERENZA CHE VA AVVICINATA CON RISPETTO
tendenza dell’essere umano a integrarsi in un’unità, fondamentale per sentirsi esistere. È un processo complesso che compare nelle prime fasi della vita e torna a essere centrale in adolescenza, il momento in cui possiamo sentire con più difficoltà il corpo diventare dimora del Sé.
Marina Cvetaeva, molti decenni prima che si iniziasse a parlare di varianza di genere, in una lettera raccontava un particolare sentimento di impossibilità ad abitare il mondo che può aiutarci ad avvicinare il dolore e lo spaesamento di chi non si riconosce nei propri confini corporei: «In tutto in ogni persona e sentimento - io sto stretta, come in ogni stanza: di una tana o di un castello. Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribile e si chiama - anima».
Per questo quando l’adolescente con un disagio legato alla propria identità di genere si rivolge allo psicoanalista dovrebbe trovare qualcuno capace prima di tutto di sospendere il giudizio e riconoscere la difficoltà di questo insediamento, e poi - se necessario in dialogo e collaborazione con altri professionisti - di costruire insieme a lui quella dimora interna, una casa per l’anima, in cui trovino spazio le forme soggettive dell’identità in divenire.