ANSIA E DEPRESSIONE REGINETTE DEI SOCIAL
L’incremento causato dalla pandemia di questi due disturbi è un diluvio su un grande lago. Ma è anche cambiato l’atteggiamento collettivo con uno tsunami di richieste d’aiuto
La pandemia di Covid-19 ha creato, secondo l’Oms, il contesto per un incremento del 35% dei disturbi di ansia e depressivi. Un diluvio su un grande lago. Gli ultimi dati affidabili sul carico mondiale di malattie mentali, risalenti nel 2017, stimavano in circa 300 milioni i casi di disturbi ansiosi, e altrettanti disturbi depressivi. I due terzi del totale. Le diverse condizioni sono non uniformemente distribuite sulle scale geografiche. Salvo per quelli amplificati dalla pandemia e alcuni dai social media, la prevalenza dei disturbi mentali non è in aumento secondo gli esperti. È cambiato però, nel mondo sviluppato, l’atteggiamento sociale. Queste malattie sono riconosciute come tali, e il ridursi dello stigma e della vergogna che le circondava ha determinato uno tsunami di richieste di aiuto. A cui i sistemi sanitari, anche dove funzionano, non sanno far fronte.
Che l’atteggiamento sia cambiato lo si vede dal numero crescente di personaggi pubblici che confessano di soffrire di disturbi mentali e dalla facilità con cui le persone ne parlano, soprattutto nei social media. Senza dimenticare che si alimentano miti o misinformazioni, come se faccia “figo” cercare di essere un Asperger o «autistici ad alto funzionamento» o avere un deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Quest’ultimo disturbo, diagnosticato di norma ai bambini, da alcuni anni sembra diventato un’epidemia negli adulti, per cui è argomento di punta su TikTok (nei social media le neurodiversità non sono stigmatizzate ma accettate come normali) e piovono spiegazioni complottiste, come l’idea che dietro ci siano le multinazionali che vogliono vendere più farmaci. Le cause sono diverse e riguardano la maggiore probabilità di ricevere una diagnosi, le autodiagnosi in rete, i genitori dei bambini con ADHD che si testano, etc., ma in generale alla base c’è il cambiamento sociale e culturale verso i disturbi mentali.
A fronte della domanda crescente di cure, chi le dovrebbe fornire non ha mezzi affidabili per fare diagnosi, non è in grado di spiegare le cause delle malattie mentali e dispone di davvero pochi trattamenti che abbiano superato i controlli clinici di efficacia. Gli psichiatri non sono come endocrinologi e immunologi clinici. Degli psicologi non parliamo proprio. Come scrive Thomas Insel, il cervello, che è comunque implicato nei comportamenti e stati mentali normali o dolorosi, è troppo complesso e sconosciuto per poter essere utilizzato al momento come riscontro biologico nella ricerca dell’eziologia, delle entità cliniche e dei bersagli terapeutici. Quindi, anche se la malattia mentale è un problema medico, la sua soluzione, secondo Insel, in questo frangente è «sociale».
Tesi interessante, considerando che egli è stato il più potente e influente neuropsichiatra statunitense degli ultimi trent’anni e ha distribuito decine di miliardi di dollari per applicare le neuroscienze alla psichiatria e trovare dei marcatori molecolari di qualche utilità diagnostica e farmacologica. Partito come ricercatore di neurobiologia comparata dell’attaccamento, pubblicando importanti studi sull’ossitocina nei primati, dal 2002 è stato per tredici anni alla guida del US National Institute Mental Health, per cui era chiamato «psichiatra d’America». Nel 2013, coraggiosamente, ritirò il supporto al DSM- 5 (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), suggerendo che alcune malattie erano meglio caratterizzate su basi molecolari. Ma il DSM è troppo un affare economico per l’American Psychiatric Association, alla faccia della ascientificità. Nel 2015 lasciava Bethesda per lavorare da Google-Alphabet aiutando lo sviluppo di strumenti digitali per intercettare su Internet tratti indicativi di disturbi mentali, e chatbot come Woebot e Vysa, che applicano le tecniche di terapia cognitivo-comportamentale per aiutare persone che non hanno accesso o non vogliono avere a che fare con psicoterapeuti in carne e ossa.
Il libro è zeppo di dati, di ragionamenti interessanti e di esperienze, nonché di un esteso lavoro di inchiesta condotto incontrando numerosi psichiatri nel Paese. È anche una spietata denuncia del disagio mentale negli Stati Uniti. Non manca il taglio politico, con il rimpianto per l’era di JFK e le critiche a Reagan, che cancellò i finanziamenti ai servizi statali di comunità per persone disagiate. Insel pensa che il motore della malattia mentale sia l’isolamento individuale o la perdita di collegamenti sociali o di sostegni professionali via via che il dolore aumenta nell’esperienza di disagio. Per il recupero della salute si deve puntare quindi su 3P, «person, place and purpose», e racconta di un equivoco, durante un’intervista con uno psichiatra, il quale credeva che 3P stesse per Prozac, Paxil and Prolixin, i tre psicofarmaci più prescritti.
Quanto alla psicoterapia, Insel scrive che solo una piccola percentuale dei 700mila fornitori di servizi di salute mentale negli Stati Uniti pratica psicodi qualche utilità. Invece di affidarsi a pratiche scientificamente validate, come la terapia cognitivo-comportamentale, prevalgono trattamenti inefficaci ma alla moda, usati da pochi e carismatici operatori. A suo avviso, la psicoterapia dovrebbe essere monitorata da un ente regolatore, in modo che un maggior numero di pazienti riceva cure basate sulle prove di efficacia.
Il capitolo intitolato Medicina di precisione spiega che per ottenere risultati migliori serve l’identificazione di «marcatori molecolari». Insel ribadisce che il DSM va superato in quanto «ha creato un linguaggio comune, ma gran parte di tale linguaggio non è stato convalidato dalla scienza». L’avversione e la denuncia dell’impatto «pernicioso» del DSM si leggono in diversi paragrafi, per esempio nel lessico che rifiuta il riferimento a certi sintomi, nella critica all’idea che il «sollievo dai sintomi» possa essere un obiettivo terapeutico valido e nell’accusa che le etichette diagnostiche creano «disturbi dove non esistono». Non mancano pagine sulla prevenzione. Chiunque può essere esposto a fattori scatenanti e Insel suggerisce di insegnare a tutti alcune tecniche, come la mindfulness, il cognitive reframing e la regolazione emotiva, che «non solo curano il disturbo post-traumatico da stress e la depressione, ma potrebbero potenzialmente aiutare chiunque». Una cosa è certa: anche se descrive uno scenario nordamericano carico di sofferenze mentali con decenni di fallimenti, il libro rimane una iniezione di ottimismo.
SOLO UNA PICCOLA PERCENTUALE DI PSICOTERAPIE FORNISCE UNA QUALCHE UTILITà AL PAZIENTE
Healing: our path from mental illness to mental health
Thomas Insel
Penguin Press, pagg. 336, $ 18,99