RACCONTO SURREALISTA DELLA MUSA DI DALí
«Sono un porco supremo». Non poteva esserci miglior incipit di questa sublime citazione dell’artista dadaista per La mia vita con Dalí, memoir di Amanda Lear. Un porco dabbene, un Robin Hood che nella foresta dell’arte annusa a terra: «io nutro i miei seguaci con i miei rifiuti». Questa non è una autobiografia, è un manuale di comportamento e un racconto iperrealista, come i suoi protagonisti. Stupefacente nei contenuti e profetico nella composizione, contiene una impressionante collezione di episodi, ciascuno con la propria location e cornice emotiva. Se vissuti oggi, ne basterebbero la metà per fare della Diva francese la regina incontrastata di Instagram, colonna sonora compresa. Il volume racconta l’Età dell’Oro di Amanda, dal 1965 a fine anni ’80. Da Brian Jones a Berlusconi, passando per Paco Rabanne, Karl Lagerfeld, David Bowie. Con al centro sempre lui, Salvador Dalí. E una domanda irrisolta: chi fu la musa di chi? Nel meraviglioso mondo di Amanda ogni cosa è illuminata ed esageratamente a portata di mano.
Dalla sera alla mattina, entra alla corte di Dalí, surreale Re Sole con sede legale alla suite numero 108 dell’hotel Meurice di Parigi, proprio di fronte alle Tuileries. «Oltre al mio universo fatto di musica rock, droga e moda, c’era un altro mondo tutto da scoprire». Dalí, anarchico reazionario, bohémien figlio del notaio di Figueres, era pure un figlio dell’Ancien Régime: «Il talento, il genio creativo si trovano nei testicoli. Senza, non si può creare niente. Per le donne, la creazione è procreazione». Lei capisce l’antifona; gli resta musa fedele, scegliendo però di esprimersi altrove e altrimenti, con la musica. Se la seconda vita di Amanda (della prima non sappiamo nulla) si svolge tra salotti, passerelle e vernissages nelle tre Capitali del Novecento (Parigi, New York e Londra), la terza la catapulta nei club, negli studi tv e nei set d’Italia. Innovatrice radicale, ha dovuto fare i conti con il trash/ kitsch degli anni ’80 e ’90. Sognava Fellini ma le tocca in sorte il ruolo di comparsa in un film del Molleggiato, peraltro all’epoca più famoso del regista di 8 e ½. «Sei bella», le disse Fellini, «troppo bella. Capisci, io cerco donnoni di centocinquanta chili, nani e mostri, non belle bionde. Torna quando sarai più brutta». È stata un’interprete disco di immenso successo continentale, anche oltre Cortina. Voleva assomigliare a Tina Turner (andò diversamente), ma idealmente aprì la strada a icone come Madonna e Lady Gaga. Canzoni come Follow me ed Enigma (entrambe del ’78), peraltro espressamente ispirate a giganti dell’elettronica come i Kraftwerk, suonano più fresche di buona parte dell’elettropop in voga oggi. Sopra a tutto l’ombra onnipresente, onnipotente, di Salvador Dalí, il «porco supremo» che ha fatto di Amanda la sua più incompiuta, e dunque eterna, opera d’arte.
La mia vita con Dalí Amanda Lear il Saggiatore, pagg. 360, € 19