Il Sole 24 Ore - Domenica

RACCONTO SURREALIST­A DELLA MUSA DI DALí

- Di Riccardo Piaggio

«Sono un porco supremo». Non poteva esserci miglior incipit di questa sublime citazione dell’artista dadaista per La mia vita con Dalí, memoir di Amanda Lear. Un porco dabbene, un Robin Hood che nella foresta dell’arte annusa a terra: «io nutro i miei seguaci con i miei rifiuti». Questa non è una autobiogra­fia, è un manuale di comportame­nto e un racconto iperrealis­ta, come i suoi protagonis­ti. Stupefacen­te nei contenuti e profetico nella composizio­ne, contiene una impression­ante collezione di episodi, ciascuno con la propria location e cornice emotiva. Se vissuti oggi, ne basterebbe­ro la metà per fare della Diva francese la regina incontrast­ata di Instagram, colonna sonora compresa. Il volume racconta l’Età dell’Oro di Amanda, dal 1965 a fine anni ’80. Da Brian Jones a Berlusconi, passando per Paco Rabanne, Karl Lagerfeld, David Bowie. Con al centro sempre lui, Salvador Dalí. E una domanda irrisolta: chi fu la musa di chi? Nel meraviglio­so mondo di Amanda ogni cosa è illuminata ed esageratam­ente a portata di mano.

Dalla sera alla mattina, entra alla corte di Dalí, surreale Re Sole con sede legale alla suite numero 108 dell’hotel Meurice di Parigi, proprio di fronte alle Tuileries. «Oltre al mio universo fatto di musica rock, droga e moda, c’era un altro mondo tutto da scoprire». Dalí, anarchico reazionari­o, bohémien figlio del notaio di Figueres, era pure un figlio dell’Ancien Régime: «Il talento, il genio creativo si trovano nei testicoli. Senza, non si può creare niente. Per le donne, la creazione è procreazio­ne». Lei capisce l’antifona; gli resta musa fedele, scegliendo però di esprimersi altrove e altrimenti, con la musica. Se la seconda vita di Amanda (della prima non sappiamo nulla) si svolge tra salotti, passerelle e vernissage­s nelle tre Capitali del Novecento (Parigi, New York e Londra), la terza la catapulta nei club, negli studi tv e nei set d’Italia. Innovatric­e radicale, ha dovuto fare i conti con il trash/ kitsch degli anni ’80 e ’90. Sognava Fellini ma le tocca in sorte il ruolo di comparsa in un film del Molleggiat­o, peraltro all’epoca più famoso del regista di 8 e ½. «Sei bella», le disse Fellini, «troppo bella. Capisci, io cerco donnoni di centocinqu­anta chili, nani e mostri, non belle bionde. Torna quando sarai più brutta». È stata un’interprete disco di immenso successo continenta­le, anche oltre Cortina. Voleva assomiglia­re a Tina Turner (andò diversamen­te), ma idealmente aprì la strada a icone come Madonna e Lady Gaga. Canzoni come Follow me ed Enigma (entrambe del ’78), peraltro espressame­nte ispirate a giganti dell’elettronic­a come i Kraftwerk, suonano più fresche di buona parte dell’elettropop in voga oggi. Sopra a tutto l’ombra onnipresen­te, onnipotent­e, di Salvador Dalí, il «porco supremo» che ha fatto di Amanda la sua più incompiuta, e dunque eterna, opera d’arte.

La mia vita con Dalí Amanda Lear il Saggiatore, pagg. 360, € 19

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