PER JUPITER! CHE GRAN CONCERTO
Daniel Barenboim sostituisce Daniel Harding, malato, e dirige un Mozart con le coloriture del «Don Giovanni». Con un grande carisma passa sopra agli errori dell’orchestra e fulmina il pubblico rumoroso
La più bella è la Jupiter,a riprova dell’inesauribile e grandioso talento di Daniel Barenboim. Dominata con intelligenza assoluta, controllo ferreo, disegno visivo delle forme, ma soprattutto piena di lampi di pura bellezza. Lì dove altri, anche in condizioni non precarie di salute, per fisiologica stanchezza avrebbero ceduto, il Maestro regala i momenti più totalizzanti. Lì finalmente ottiene che la Filarmonica della Scala segua ed esegua quello che lui vuole; esattamente sul suo braccio, sul suo suono. Lì torniamo a sognare. La vicenda è nota, è il miracolo Scala di questa settimana: il direttore malato, a pochi mesi dal ritiro dalle scene, torna a Milano per dirigere tre concerti. Il taglio meraviglioso della notizia, in puro ammicco Barenboim, è che il già “maestro scaligèro” venga ora a fare il “maestro sostituto”, ossia prenda il posto del previsto Daniel Harding. Identico il programma, le tre ultime Sinfonie di Mozart.
Il foglietto inserito nel programma di sala sta a prova provata della decisione all’ultimo minuto. Sulla copertina dorata campeggia ancora il nome di Daniel Primo (arduo scegliere le gerarchie) mentre le maschere gentili all’ingresso in sala consegnano il volantino con la biografia e nel tondo la fotografia di Daniel Secondo, quella letta mille volte: lui nato a Buenos Aires nel 1942, a cinque anni le prime lezioni di pianoforte con la madre, poi con il padre, eccetera eccetera. Barenboim c’è: il gesto di attacco del Finale della K551, squadrato in avanti, la bacchetta lunga che taglia l’aria come fosse marmo, ricorda esattamente le sciabolate di Furtwängler. Dominio aristocratico e austero, le quattro note larghe che diventeranno la base portante di una delle cattedrali più vertiginose e ardite della musica, sono pilastri senza scansione di tempo. Astri nel cielo: ogni volta che risuoneranno, negli infiniti ritorni del tema divino della fuga, assumono un colore diverso. Non semplicemente per il timbro degli strumenti, che di volta in volta prendono il motto in consegna, ma proprio dalla richiesta interna che proviene dal direttore. Ora fredde, ora pompose, ora sotterranee, ora - ed è un autentico tuffo al cuore - appoggiate per un infinitesimo oltre sulla nota più alta, che così canta dolce nella curva espressiva: un “fa” che implora di andare avanti. Non ci si può fermare, quando si ha dentro un mondo così grande di musica.
Barenboim, il nuovo Barenboim sul podio, dimostra per l’ennesima volta quanto la direzione sia soprattutto un fatto di testa. E quanto questa lucidità unita alla fantasia del pensiero musicale risolva tutti i momenti di scrittura, anche i più ostici per l’assieme. La musica non si scioglie battendo, in verticale, suddividendo all’impazzata. Barenboim insegna come si naviga sul mare orizzontale dei fraseggi, sulla densità espressiva degli incontri, sul dramma, sulla poesia. Mai banale, si impone subito, teatrale: l’Adagio di apertura della Sinfonia n.39 si trasforma in un grande Recitativo drammatico; parla, racconta, ha tutte le ombre del Don Giovanni, stesso inchiostro.
Le pieghe sembrano adesso interessargli in modo nuovo, le volatine piccole a guizzi ripetuti: in apparenza abbellimenti, diventano segni portanti. Un poco difficili, se non abituati, negli unisoni degli archi per file. Qualche errore casca, ripetuto. Peccato, l’orchestra dovrebbe suonare più pulita. Mettiamo sia emozionata? Il direttore saetta dagli occhi, implacabile. Ma non ostacola, dirige pur sempre da strumentista. Però quando in sala una voce maschile protesta maleducata, per motivi privati, ecco il Barenboim di sempre: si ferma, si gira, ora che dirige seduto si appoggia comunque come ha sempre fatto sulla spalliera del podio, guarda interrogativo. Tre secondi di rotazione e si crea silenzio totale.
Che carisma, Maestro. Che magnetismo sulla partitura (che ovviamente sta sempre nella memoria), quanta poesia, quanta tangibile gioia mozartiana restituita. Le chiuse sempre vaporose, la bacchetta che costruisce mentre la sinistra plasma gli affetti. Che capacità di recuperare sempre, anche su assiemi ondivaghi. I ritornelli solo i necessari, di Minuetti e Trii. Ma tutti e possenti quelli della Jupiter. Il gesto più parco, a volte resta persino fermo, quasi in ascolto. Per contrasto alcuni slanci diventano poderosi, larghi, abbraccianti. Deliziose le dita quando suonano, letteralmente, le notine cantabili della Sinfonia n.40, quasi fossero sulla tastiera del pianoforte. Ogni tanto è la stessa mano sinistra ad andare agli occhi, cercando un raccoglimento, nel medesimo gesto, che flash all’indietro, dell’ultimo concerto di Toscanini. Vuole ritornare, Barenboim. Le pagine bianche dell’agenda si stanno riempiendo: Montecarlo, Firenze, Chicago... Alla Scala il pubblico tutto in piedi lo acclama.
Sinfonie nn. 39, 40, 41
Wolfgang Amadeus Mozart Filarmonica della Scala Direttore Daniel Barenboim Teatro alla Scala