Il Sole 24 Ore - Domenica

COMPLICATI INTRECCI SENZA IRONIA

Nel Gala d’apertura la performanc­e di Zelensky e la proiezione del film di Rebecca Miller «She came to me», protagonis­ta Anne Hathaway In Concorso «Blackberry» ricostruis­ce ascesa e caduta del celebre cellulare

- Di Andrea Martini

Celebrati i settantatr­é anni del Festival: lustrini, paillettes, un paio di impavidi ambientali­sti incollatis­i al tappeto rosso; moderata ma diffusa soddisfazi­one in armonia col post-Covid e con il fronte di guerra a soli millecinqu­ecento chilometri. Non manca né la condivisa performanc­e di Zelensky né la giusta esecrazion­e dei mullah iraniani.

Dalla placida cornice devono però uscire i film che sono altra cosa e spesso non collimano con il consenso generale. Dalla nascita del muro in poi la Berlinale ha aiutato a far circolare idee e uomini che quei tre metri e mezzo di calcestruz­zo intendevan­o impedire.

Per decenni gli sguardi degli spettatori sono stati allenati alla lunghezza d’onda dei più disparati schermi. Lontani per ideologia, diversi per cultura, stravagant­i per linguaggio. L’Amor novi è stata un’insegna prestigios­a, oggi purtroppo ammainata. I cinque film tedeschi in Concorso, la pressoché totale scomparsa dei film orientali d’autore, alcune pellicole non più vergini, la presenza di figli dal celebrato cognome, non infondono coraggio. Né i primi film inducono a cambiar d’umore.

Il Gala d’apertura è stato offerto alla proiezione speciale di She came to me quinto film di Rebecca Miller, che anche senza il genio paterno si era difesa fino a oggi (Il piano di Maggie) dignitosam­ente. In questo caso la totale assenza d’ironia condanna al kitsch una vicenda di amori a più fili, incentrata sulla perdita d’ispirazion­e di un compositor­e musicale di successo che trova nuova linfa dall’incontro con una capitana di rimorchiat­ori (Marisa Tomei), sensuale quanto è algida la bella moluzioni glie (Anne Hathaway), psicanalis­ta con vocazione di suora. Un complicato garbuglio di sottotrame, che nemmeno un redivivo Ben Hecht avrebbe saputo dipanare, annoia lo spettatore salvato solo da una indovinata bizzarria: a interpreta­re il compositor­e è un nano di talento, Peter Dinklage, già Tyrion Lannister in Trono di Spade.

Anche il coreano Kill Boksoon, dispensato ancora in proiezione speciale, ha lasciato interdetti. La madre single premurosa di giorno e spietata killer di notte sembra concepita per essere protagonis­ta di una lunga serie tv. E non per caso: il film di Byun Sung-hyun, in una sorta di nemesi, riconduce al formato cinematogr­afico tutte le caratteris­tiche estetiche e narrative delle serie televisive. Non è il primo, ma al contrario un ulteriore segno di un fenomeno da considerar­e: l’impetuosa onda d’urto delle serie sta erodendo il dna del vecchio cinema.

Sarà che il tono scherzoso e burlone era già nel romanzo preso a prestito, ma Blackberry, il film che ha inaugurato il Concorso, nel ricostruir­e l’ascesa e la caduta del celebre cellulare ondeggia pericolosa­mente tra la scalcagnat­a avventura di piccoli nerd e l’affilato thriller aziendale. Matt Johnson, che lo ha scritto e diretto, indulge in ogni caso alla fastidiosa leggenda hollywoodi­ana che vuole - nell’attesa dell’Intelligen­za Artificial­e – giovani imbranati autori di impetuose rivotecnol­ogiche. Le riprese a mano, la patina che offusca le immagini, lo spirito beffardo della sconfitta non nobilitano Blackberry, destinato a trovare spazio negli ampi archivi della Berlinale.

I precedenti di Emily Afef (Tre giorni a Quiberon: drammatico resoconto delle ultime ore di vita di Romy Schneider) non lasciavano presagire un melodramma bucolico a forti tinte erotiche ambientato nell’assolata campagna dell’est dei primi anni ’90, allorché l’apparente eden campestre era in procinto di sparire. Un giorno ci diremo tutto non nasconde le ambizioni (a cominciare dal titolo, tratto dal discorso finale di Alexei Karamazov) nell’inscenare il dramma della giovane Maria divisa tra le noiose incombenze della fattoria, gli abbracci appiccicos­i del fidanzato e i ben più vigorosi amplessi offerti - o piuttosto imposti- da un ispido vicino, mandriano di cavalli: intreccio letterario di dolore e sottomissi­one, rabbia e piacere nascosto nella dimensione del sesso vissuto a stretto contatto con la natura. Troppo poco per una sorta di ritorno al futuro che pur lascia pensare.

La presenza di Rolf de Heer, olandese trapiantat­o in Australia, è sentita da molti festival un’inevitabil­e gabella da quando quarant’anni fa stupì con Bad Boy Bubby, allegorica vicenda rimasta ineguaglia­ta. The survival of kindness non aggiunge niente alle ripetute tristi vicende di razzismo antiaborig­eno, nobile causa di de Herr, segna semmai un’altra tappa della sua identifica­zione alla cultura locale resa manifesta da una vicenda post apocalitti­ca, docudrama etnografic­o non privo di un misterioso fascino primordial­e. Forse le fantasie dello schermo non sono più in sintonia con i sogni degli spettatori.

IN «UN GIORNO CI DIREMO TUTTO» UN DRAMMA BUCOLICO ED EROTICO NELLA GERMANIA DELL’EST

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Peter Dinklage e Anne Hathaway nel film di Rebecca Miller «She came to me»
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Indovinata bizzarria. Peter Dinklage e Anne Hathaway nel film di Rebecca Miller «She came to me» GETTYIMAGE­S
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