COMPLICATI INTRECCI SENZA IRONIA
Nel Gala d’apertura la performance di Zelensky e la proiezione del film di Rebecca Miller «She came to me», protagonista Anne Hathaway In Concorso «Blackberry» ricostruisce ascesa e caduta del celebre cellulare
Celebrati i settantatré anni del Festival: lustrini, paillettes, un paio di impavidi ambientalisti incollatisi al tappeto rosso; moderata ma diffusa soddisfazione in armonia col post-Covid e con il fronte di guerra a soli millecinquecento chilometri. Non manca né la condivisa performance di Zelensky né la giusta esecrazione dei mullah iraniani.
Dalla placida cornice devono però uscire i film che sono altra cosa e spesso non collimano con il consenso generale. Dalla nascita del muro in poi la Berlinale ha aiutato a far circolare idee e uomini che quei tre metri e mezzo di calcestruzzo intendevano impedire.
Per decenni gli sguardi degli spettatori sono stati allenati alla lunghezza d’onda dei più disparati schermi. Lontani per ideologia, diversi per cultura, stravaganti per linguaggio. L’Amor novi è stata un’insegna prestigiosa, oggi purtroppo ammainata. I cinque film tedeschi in Concorso, la pressoché totale scomparsa dei film orientali d’autore, alcune pellicole non più vergini, la presenza di figli dal celebrato cognome, non infondono coraggio. Né i primi film inducono a cambiar d’umore.
Il Gala d’apertura è stato offerto alla proiezione speciale di She came to me quinto film di Rebecca Miller, che anche senza il genio paterno si era difesa fino a oggi (Il piano di Maggie) dignitosamente. In questo caso la totale assenza d’ironia condanna al kitsch una vicenda di amori a più fili, incentrata sulla perdita d’ispirazione di un compositore musicale di successo che trova nuova linfa dall’incontro con una capitana di rimorchiatori (Marisa Tomei), sensuale quanto è algida la bella moluzioni glie (Anne Hathaway), psicanalista con vocazione di suora. Un complicato garbuglio di sottotrame, che nemmeno un redivivo Ben Hecht avrebbe saputo dipanare, annoia lo spettatore salvato solo da una indovinata bizzarria: a interpretare il compositore è un nano di talento, Peter Dinklage, già Tyrion Lannister in Trono di Spade.
Anche il coreano Kill Boksoon, dispensato ancora in proiezione speciale, ha lasciato interdetti. La madre single premurosa di giorno e spietata killer di notte sembra concepita per essere protagonista di una lunga serie tv. E non per caso: il film di Byun Sung-hyun, in una sorta di nemesi, riconduce al formato cinematografico tutte le caratteristiche estetiche e narrative delle serie televisive. Non è il primo, ma al contrario un ulteriore segno di un fenomeno da considerare: l’impetuosa onda d’urto delle serie sta erodendo il dna del vecchio cinema.
Sarà che il tono scherzoso e burlone era già nel romanzo preso a prestito, ma Blackberry, il film che ha inaugurato il Concorso, nel ricostruire l’ascesa e la caduta del celebre cellulare ondeggia pericolosamente tra la scalcagnata avventura di piccoli nerd e l’affilato thriller aziendale. Matt Johnson, che lo ha scritto e diretto, indulge in ogni caso alla fastidiosa leggenda hollywoodiana che vuole - nell’attesa dell’Intelligenza Artificiale – giovani imbranati autori di impetuose rivotecnologiche. Le riprese a mano, la patina che offusca le immagini, lo spirito beffardo della sconfitta non nobilitano Blackberry, destinato a trovare spazio negli ampi archivi della Berlinale.
I precedenti di Emily Afef (Tre giorni a Quiberon: drammatico resoconto delle ultime ore di vita di Romy Schneider) non lasciavano presagire un melodramma bucolico a forti tinte erotiche ambientato nell’assolata campagna dell’est dei primi anni ’90, allorché l’apparente eden campestre era in procinto di sparire. Un giorno ci diremo tutto non nasconde le ambizioni (a cominciare dal titolo, tratto dal discorso finale di Alexei Karamazov) nell’inscenare il dramma della giovane Maria divisa tra le noiose incombenze della fattoria, gli abbracci appiccicosi del fidanzato e i ben più vigorosi amplessi offerti - o piuttosto imposti- da un ispido vicino, mandriano di cavalli: intreccio letterario di dolore e sottomissione, rabbia e piacere nascosto nella dimensione del sesso vissuto a stretto contatto con la natura. Troppo poco per una sorta di ritorno al futuro che pur lascia pensare.
La presenza di Rolf de Heer, olandese trapiantato in Australia, è sentita da molti festival un’inevitabile gabella da quando quarant’anni fa stupì con Bad Boy Bubby, allegorica vicenda rimasta ineguagliata. The survival of kindness non aggiunge niente alle ripetute tristi vicende di razzismo antiaborigeno, nobile causa di de Herr, segna semmai un’altra tappa della sua identificazione alla cultura locale resa manifesta da una vicenda post apocalittica, docudrama etnografico non privo di un misterioso fascino primordiale. Forse le fantasie dello schermo non sono più in sintonia con i sogni degli spettatori.
IN «UN GIORNO CI DIREMO TUTTO» UN DRAMMA BUCOLICO ED EROTICO NELLA GERMANIA DELL’EST