VIAGGIO NELL’OFFICINA DEI «PROMESSI SPOSI»
A 150 anni dalla morte dello scrittore, nuovi studi illuminano il romanzo e le sue varie versioni. Ma rivalutano anche la «Storia della colonna infame» come ultimo capitolo del capolavoro
Centocinquanta anni fa, il 22 maggio 1873, moriva Alessandro Manzoni. Prima che si accendano le luminarie delle celebrazioni, va preso atto di come, a dispetto dell’angustia dei luoghi comuni e delle formule abusate che si sono incistati nella tradizione scolastica, sia da tempo cambiata la narrazione critica intorno all’opera più popolare dell’autore. Si deve ad Alfredo Giuliani la migliore definizione del miracolo stilistico del romanzo manzoniano. «Il fatto luminoso» è, diceva il critico, «la scrittura naturale, splendida di toni, calma e vivace, dei Promessi sposi, che alterna cupezze e orrori a soavità edificanti; che sa scivolare dalla malizia bonaria al severo moralismo, dal comico al metafisico». Giuliani si occupava di Manzoni negli anni 1983-1985. Le sue pagine sul capolavoro manzoniano sono raccolte in quel superbo racconto lungo, che ha per protagonisti le opere di una legione di scrittori classici e moderni, intitolato La biblioteca di Trimalcione. Il libro è pubblicato da Adelphi. Dà spazio alla piccola storia di «gente meccaniche», degli umili e «perduti» anonimi promossi a primattori tra gli sconquassi della grande storia di «Prencipi e Potentati» in un romanzo per il quale viene evocata da Giuliani la risentita definizione di Leonardo Sciascia: «un’opera che è anche un disperato, inquietante ritratto dell’Italia». I promessi sposi «ormai fanno parte della nazione», aggiunge lapidariamente l’autore della Biblioteca di Trimalcione.
«Il romanzo è nella coscienza degli italiani». Esordisce così Roberto Bizzocchi, storico di professione, nel recente volume Romanzo popolare. Come i «Promessi sposi» hanno fatto l’Italia, edito da Laterza. Nelle pagine conclusive, l’autore appunta: «È il momento di ricordare che il romanzo è un capolavoro letterario che ha anche il carattere di un manifesto politico, pensato e realizzato per l’Italia intera e per tutti gli italiani, nel quadro di una nazione libera e unita e di una società giusta». Alla riformulazione del giudizio contribuisce non poco la convinzione che l’anatomia di un crimine giudiziario proposta da Manzoni nella Storia della colonna infame vada definitivamente recuperata come capitolo ultimo, e ineliminabile, del romanzo: come chiave di lettura dell’intera opera, con tutta la forza della sua terribilità che una luce nera, da camera della tortura, riverbera sulle vicende prima raccontate come fabula di un matrimonio contrastato.
Purtroppo la pratica delle edizioni scolastiche (e non solo scolastiche) per moltissimo tempo ha resecato dal romanzo l’«infame» processo contro i presunti untori. Significativo è quanto accaduto con la ristampa nel 2021 dell’edizione dei Promessi sposi magistralmente commentata da Ezio Raimondi e Luciano Bottoni. La prima edizione era uscita nel 1987. Mancava della Storia della colonna infame, come imponeva l’abitudine invalsa. La casa editrice Carocci ha riproposto il commento. E, per riparare alla mancanza, ha aggiunto in coda un magnifico saggio di Raimondi sulla Colonna. Vi si legge: «se il percorso del romanzo si snoda tra il chiaroscuro degli eventi, nella Colonna infame rimane soltanto il senso tetro della prigione: non ci sono più spiragli, non c’è cielo, rimane l’innocenza tradita e condannata. Questa è la differenza profonda: I promessi sposi possono diventare il luogo del dramma, nel senso ampio della parola, la Colonna infame resta per sempre il luogo della percezione della tragedia che a un certo punto diventa silenzio... Il tema torna a essere quello della battaglia tra la verità e l’errore, l’innocenza e la colpevolezza, la giustizia e il potere».
Viene voglia di recuperare alla rilettura della Colonna un lontano e del tutto dimenticato articolo di Dino Buzzati, apparso nell’ottobre del 1962 sul «Corriere d’informazione»: «quanti... spunti fortissimi» il lettore può trarre dalla Colonna infame, «che, per impressionanti analogie, trovano un’eco precisa nella nostra vita, di ieri e anche di oggi; l’incubo di una calamità comune; il conformismo, la servile acquiescenza all’ipse dixit, l’atmosfera di sospetto, il terrore delle delazioni, la sopraffazione dei forti, il vizio della tortura, l’agonia dei benintenzionati, il gusto della persecuzione, lo spirito del linciaggio. E, soprattutto, uno dei più tristi sviluppi della vita civile: per cui, quando la lettera della legge, o il presunto interesse collettivo, o un’ambigua motivazione