LA VOCE RIFORMISTA DI UN UOMO «RINASCIMENTALE»
Ricordare Giorgio Ruffolo, scomparso la scorsa settimana a 96 anni, significa ripercorrere l’impervio sentiero di un’Italia riformista che non ha mai raggiunto il suo approdo. Ma farlo non significa vestirsi di rimpianto e mestamente inanellare lagnanze sul livello culturale ipogeo della classe politica a noi contemporanea, vuol dire riconoscere a quella personalità il ruolo che ebbe nel pensare e lavorare per costruire un Paese migliore.
Ruffolo, punta di lancia del socialismo riformista italiano, è stato troppe cose per elencarle tutte con precisione, e anche un freddo inventario delle sue attività sarebbe approssimato per difetto. Vale però la pena ricordare la sua raffinata capacità di leggere le dinamiche economiche, che da analisi seppe tradursi a pratica, il suo risalire con originalità alle genealogie storiche dei processi politici, le sue sintesi di campata lunga. Accanto a ciò, la volontà di sperimentarsi sul campo considerando la politica come la base di un impegno civile inderogabile per un uomo della sua generazione. E, in effetti, Ruffolo fu pienamente un intellettuale del suo tempo e il suo cursus dal primo impegno all’ufficio studi di Bnl, all’Oece, dall’Eni di Mattei fino a divenire l’alter ego tecnico di Antonio Giolitti al Bilancio, descrive la peculiarità di un’epoca fuori dall’ordinario durante la quale l’Italia appariva ancora una nave governabile e un luogo saldamente inserito in dinamiche internazionali con un ruolo solo latamente periferico.
Nel suo farsi uno dei pochi riconosciuti grand commis dello Stato, Ruffolo non smise mai di essere l’ironico sognatore che dà il titolo anche allo schizzo biografico uscito nel 2007 (Il libro dei sogni. Una vita a sinistra raccontata a Vanessa Roghi, Donzelli). Quella definizione conteneva un consapevole sarcasmo, volendo alludere a come Amintore Fanfani - mente ed esecutore di un metodo che ridusse le aziende di Stato a feudo dello Scudo crociato definì il programma riformistico socialista che doveva innervare di contenuti innovativi il primo centrosinistra. Ma poiché quella enunciazione descrive la fine di quell’avventura, ciò cui non rende giustizia è il modo e la tenacia con cui si svolse l’elaborazione del cosiddetto “Progetto 80”: il documento sintesi della “programmazione” che, se attuato, avrebbe davvero reso l’Italia assai più attrezzata a confrontarsi con la forza scardinante della seconda globalizzazione.
Impossibile riassumere la latitudine politica di quel documento e menzionarne tutti gli agguerriti estensori; ciò che invece pare importante è sottolinearne la portata innovativa rispetto ai due modelli che allora monopolizzavano il discorso pubblico e la strategia economica. Quella programmazione si incuneava infatti nel labile spazio lasciato libero dall’ispirazione programmatica sovietica e dal materno mantenimento dello status quo democristiano. Stava insomma in uno spazio politico che mai riuscì a uscire dall’adolescenza neanche quando, qualche decennio dopo, al Partito socialista fu affidata la responsabilità di governo e con essa la possibilità a Ruffolo di divenire ministro. L’esperienza della programmazione - aperta nel pieno di una crisi politica che all’epoca fu pudicamente definita “la congiuntura” - portò all’elaborazione del Piano Giolitti (fondato sulla persuasione che la crescita economica dovesse accompagnarsi a un radicale rinnovamento dell’amministrazione e a una razionalizzazione territoriale e settoriale degli investimenti), che ottenne un appoggio tiepido perfino dai socialisti e fu presto superata. Ma ciò non scolorò la tensione di chi in vario modo provò a spacchettarne i contenuti e a portarli nella propria attività pubblica.
Evidentemente quella parabola (che ha ancora la sua più accessibile descrizione nel volume curato da Manin Carabba, Un ventennio di Programmazione) fu centrale nell’esperienza biografica di Ruffolo: e dal punto di vista del cimento non solo intellettuale, ma anche umano, poiché il gruppo che egli coordinò e che si installò nelle stanze di Via XX Settembre attorno a Giolitti rimase il riferimento costante di tutta l’attività di Ruffolo anche dopo il tramonto di quella stagione premonitrice.
Nello straniante vaniloquio che sempre ha caratterizzato la politica italiana, la capacità che Ruffolo aveva di individuare il nucleo concettuale dei problemi, di eviscerarli con acuta sintesi, si era raffinata negli anni fino ad arrivare alla penetrante analisi trasfusa in un’intensa e poligrafa attività saggistica che ha punteggiato la fase finale della sua produzione. Del suo proverbiale senso dell’ironia, sempre velata di una profonda sagacia ma mai cinica a dispetto della sua romanità, si è detto molto, e chiunque abbia intrattenuto anche una breve conversazione con lui ne mantiene un ricordo indelebile: un ricordo che condivide con i lettori dei suoi lucidissimi articoli.
Spesso, per omaggiare la memoria di un intellettuale complesso e dalle molte sfaccettature, si ricorre all’usuratissima definizione di “uomo rinascimentale”; nel caso di Ruffolo tale attributo è il più appropriato, e non solo perché il suo geniale amico Luciano Cafagna paragonò (certo immodestamente) il lavoro della programmazione agli Orti Oricellari, ma perché davvero egli tale è stato per indole, applicazione, attitudine. Altri dieci uomini come lui nei suoi campi d’azione, e forse oggi l’Italia sarebbe un Paese meno devastato. Troppo chiedere.