Il Sole 24 Ore - Domenica

INDAGARE LA REALTà CON LA «NARRATIVE NON-FICTION»

- Di Elisabetta Rasy

Indipenden­temente dal suo talento letterario e dalla ricchezza della sua produzione, Joan Didion, morta a ottantaset­te anni nel 2021, incarna una certa America – e una certa idea di America – che non esiste più, o almeno non dà molti segnali della sua esistenza. Aveva cominciato a scrivere negli anni Sessanta nell’ambito di quello che è stato chiamato il New Journalism, un tipo di giornalism­o in cui alla oggettivit­à della cronaca si intreccia la soggettivi­tà di chi scrive. Lo dice espressame­nte: «Tengo in gran conto l’obiettivit­à, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive». È una posizione, prima ancora che stilistica, morale: Didion incarna quella cultura d’Oltreocean­o che reagisce agli stereotipi dell’american way of life ea tutti i suoi falsi idealismi, un nucleo intellettu­ale legato alla realtà da un pensiero critico che si fa poi racconto qualcosa di diverso dalla letteratur­a impegnata o di denuncia, una sorta di sguardo non necessaria­mente impietoso ma vigile fino al sospetto.

Come dice giustament­e Hilton Als nella prefazione all’antologia di testi della scrittrice raccolti ora con il titolo Perché scrivo: «La sua narrative non-fiction è un’indagine sulla verità», e si può aggiungere che lo è anche la sua narrativa fiction, valga per tutti l’esempio di Democracy, uno dei suoi più celebrati romanzi. Dal 1968 (data del primo degli articoli del volume) al 2000 (ultimo articolo) è chiaro che la verità che Didion cerca di mettere a fuoco – in primo luogo nelle parole che usa: come si può cercare la verità con un lessico fatto di luoghi comuni, modi di dire corrivi o parole approssima­tive? Non va indagata nei massimi sistemi delle dichiarazi­oni istituzion­ali o nei discorsi presidenzi­ali. Il luogo privilegia­to dove stanarla è rappresent­ato da quei santuari della quotidiani­tà dove la verità stessa sfoggia i suoi travestime­nti migliori, per esempio in una riunione di ludopatici in cerca di riscatto, oppure nelle mitologie del mercato, come svela un lungo saggio sulle manipolazi­oni della figura di Hemingway dopo la sua morte.

Acuta, attenta e riflessiva Joan Didion non ha nulla dell’enfasi degli eroi della controcult­ura che si esprimevan­o in quegli stessi anni Sessanta e Settanta del Novecento in cui lei si afferma: il suo è uno sguardo critico non ideologico, che appartiene alla più vivace tradizione culturale degli Stati Uniti. Come funziona lo spiega in poche parole nel saggio che dà il titolo al volume: «Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Che cosa voglio e che cosa temo».

Perché scrivo

Joan Didion

Traduzione di Sara Sullam il Saggiatore, pagg. 146, € 17

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