INDAGARE LA REALTà CON LA «NARRATIVE NON-FICTION»
Indipendentemente dal suo talento letterario e dalla ricchezza della sua produzione, Joan Didion, morta a ottantasette anni nel 2021, incarna una certa America – e una certa idea di America – che non esiste più, o almeno non dà molti segnali della sua esistenza. Aveva cominciato a scrivere negli anni Sessanta nell’ambito di quello che è stato chiamato il New Journalism, un tipo di giornalismo in cui alla oggettività della cronaca si intreccia la soggettività di chi scrive. Lo dice espressamente: «Tengo in gran conto l’obiettività, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive». È una posizione, prima ancora che stilistica, morale: Didion incarna quella cultura d’Oltreoceano che reagisce agli stereotipi dell’american way of life ea tutti i suoi falsi idealismi, un nucleo intellettuale legato alla realtà da un pensiero critico che si fa poi racconto qualcosa di diverso dalla letteratura impegnata o di denuncia, una sorta di sguardo non necessariamente impietoso ma vigile fino al sospetto.
Come dice giustamente Hilton Als nella prefazione all’antologia di testi della scrittrice raccolti ora con il titolo Perché scrivo: «La sua narrative non-fiction è un’indagine sulla verità», e si può aggiungere che lo è anche la sua narrativa fiction, valga per tutti l’esempio di Democracy, uno dei suoi più celebrati romanzi. Dal 1968 (data del primo degli articoli del volume) al 2000 (ultimo articolo) è chiaro che la verità che Didion cerca di mettere a fuoco – in primo luogo nelle parole che usa: come si può cercare la verità con un lessico fatto di luoghi comuni, modi di dire corrivi o parole approssimative? Non va indagata nei massimi sistemi delle dichiarazioni istituzionali o nei discorsi presidenziali. Il luogo privilegiato dove stanarla è rappresentato da quei santuari della quotidianità dove la verità stessa sfoggia i suoi travestimenti migliori, per esempio in una riunione di ludopatici in cerca di riscatto, oppure nelle mitologie del mercato, come svela un lungo saggio sulle manipolazioni della figura di Hemingway dopo la sua morte.
Acuta, attenta e riflessiva Joan Didion non ha nulla dell’enfasi degli eroi della controcultura che si esprimevano in quegli stessi anni Sessanta e Settanta del Novecento in cui lei si afferma: il suo è uno sguardo critico non ideologico, che appartiene alla più vivace tradizione culturale degli Stati Uniti. Come funziona lo spiega in poche parole nel saggio che dà il titolo al volume: «Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Che cosa voglio e che cosa temo».
Perché scrivo
Joan Didion
Traduzione di Sara Sullam il Saggiatore, pagg. 146, € 17