«ALLEGHER», ECCO I «RIMM»!
Una monumentale antologia riunisce quanto di meglio sia stato scritto nell’idioma meneghino Da Bonvesin de la Riva a Carlo Porta, da Dario Fo a Franco Loi
La definizione di Milano come capitale morale d’Italia – attribuita, pare indebitamente, al napoletano Ruggiero Bonghi – andava letta in origine intendendo “morale” nel senso di “spirituale”, “intellettuale” (insomma non ufficiale, formale), piuttosto che in quello su cui ironizzarono facilmente gli osservatori di Tangentopoli e di altri ingloriosi episodî. Ma in quella definizione fu ben presto implicito il richiamo a un tratto – oscillante fra sincera tensione etica e deteriore moralismo – ben tipico della cultura lombarda nell’età più recente. È un carattere che s’osserva chiaramente leggendo i due tomi della Letteratura dialettale milanese editi dal Centro Pio Rajna pei tipi di Salerno.
Diciamolo subito: è un’opera monumentale, di quelle che quasi non t’aspetteresti in un’epoca attraversata dall’idea che i grandi cantieri filologici e le imprese groundbreaking (è il già frusto lessico della ricerca duemillesca) debbano erigersi lontano dalle stamperie, nello spazio virtuale della rete. Siamo di fronte a due volumi maestosi e finemente confezionati, opera d’un ampio comitato di studiosi che ha raccolto, introdotto e commentato una scelta significativa (se non proprio esaustiva quanto alla definizione del canone) della produzione milanese. Si parte da Bonvesin da la Riva, patriarca della letteratura didattico-morale nella Milano duecentesca (a cura di Raymund Wilhelm), s’arriva ai poeti dialettali contemporanei (Giancarlo Consonni, presentato da Clelia Martignoni) e agli autori di canzoni per musica in milanese, tra cui spiccano i nomi di Strehler, Fo e Jannacci (curati da Giacomo della Ferrera).
Da due secoli, cioè dai tempi di Francesco Cherubini, non si metteva insieme una simile antologia (si trattava allora di una Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese, 1816-17). Ma una decina d’anni fa il catalogo di una mostra braidense («Rezipe i rimm del Porta», a cura di Luca Danzi e Felice Milani) aveva definito il tracciato di una strada già segnata, nelle sue tappe fondamentali, dal magistero di Dante Isella sulla letteratura lombarda dell’età moderna. I presupposti, insomma, erano chiari: ed è toccato all’autrice di una recente Storia linguistica di Milano, Silvia Morgana, dirigere la trentina di firme reclutate per render conto, in circa novanta ritratti, della galleria letteraria in cui il milanese si dispone dai tempi in cui è il volgare locale alternativo al latino della tradizione medievale fino a quelli in cui è il rovescio, talora polemico, dell’italiano letterario. Il percorso ha una fondamentale stazione intermedia nell’incontro fra milanese e toscano, fecondo nell’età di Ludovico il Moro (1480-1499), che è anche quella di Leonardo da Vinci milanese e degli altri protagonisti del rapporto tra la città amica dei Medici e quella amica degli Sforza. Furono del resto due fiorentini, Benedetto Dei e Luigi Pulci (li legge Fabio Marri), a sperimentare a quell’epoca l’uso letterario e giocoso della parlata milanese. Altri snodi cruciali sono l’elaborazione di una grafia in qualche modo standardizzata e uniforme (iniziata dal secentista Carlo Maria Maggi e completata di fatto dal Cherubini); e ancora, la moderna maturazione di un “italiano di Milano”, responsabile certo del declino del dialetto in città, ma anche – indirettamente – di forme inedite di riscoperta letteraria.
È difficile, ad esempio, pensare fuori dalla Milano novecentesca il percorso del grande Franco Loi: un sardo (per parte di padre) cresciuto parlando italiano e poetando, appunto, in milanese, che è per lui lingua adulta, scoperta ed esplorata (se ne occupa Mauro Bignamini; e i lettori della «Domenica» ricorderanno le righe che gli ha dedicato il 29 gennaio scorso Paolo Senna, custode del suo prezioso archivio).
Tra le oltre millecinquecento pagine di questo museo poetico c’è anche della prosa (ad esempio c’è l’Adalgisa di Gadda) e c’è anche del teatro (fino al capitale Ambleto del Testori, curato da Luca D’Onghia). Vi si potrebbero scavare chissà quanti percorsi e tracciare varie linee. Provo a indicarne un paio, partendo dal lungo rapporto fra letteratura dialettale e arti figurative, che si fa intenso soprattutto nel tardo Cinquecento di Giovan Paolo Lomazzo (commentato da Giuseppe Polimeni), poeta dialettale e insieme fine trattatista d’arte. Ma di «pittura della realtà» Isella parlò anche per Maggi. E poi quel filone morale donde eravamo partiti, che percorre costantemente la produzione in milanese dai tempi dei predicatori medievali in versi fino all’Ottocento, quando il che trova nella forza parola la sua più coinvolgente possibilità di espressione. Nella versione italiana di Giovanni Giudici i versi della poetessa americana conservano intera la sua impronta, il tono e l’emozione interna. E la traduzione di Giudici segna una svolta nella ricezione italiana di Sylvia Plath. milanese riesce meglio che altre lingue a farsi strumento precipuo di scavo nella realtà dei poveri, degli oppressi, degli emarginati. Un potente afflato etico è già negl’illuministi lombardi, e più ancora nei romantici (soccorrono inevitabilmente i nomi di Parini, che fu anche poeta dialettale, e di Porta – letti qui da Pietro De Marchi e Mauro Novelli). Ma è anche in autori veristi come Luigi Illica, e ancora, sotto forma di vera militanza sociale, nei poeti e negli chansonniers novecenteschi di cui dicevamo: pochi dialetti come il milanese hanno dato voce con tanta serietà e fermezza a temi e a personaggi così rari in una letteratura, quella italiana, che a lungo è stata scritta più nelle corti che nei crocicchi.
@lorenzotomasin
La letteratura dialettale milanese. Autori e testi
A cura di Silvia Morgana Salerno editrice (2 tomi), pagg. LXXXIV+1512, € 250