Il Sole 24 Ore - Domenica

PICCOLI GESTI DI SALVEZZA

Per arrestare desertific­azione e distruzion­e non ci sono soluzioni magiche ma si può cominciare ad agire subito individual­mente invece di aspettare le grandi decisioni politiche

- Di Juan Arsuaga e Milagros Albaga

«La Terra è bellissima, ma soffre di una malattia chiamata Uomo». Così si esprimeva Nietzsche, e molta gente la pensa così anche oggi. Quello che il filosofo tedesco non poteva però immaginare, è che adesso saremmo stati così preoccupat­i per le conseguenz­e delle nostre azioni.

C’è chi nega il cambiament­o climatico, quasi fosse una semplice opinione, qualcosa che può entrare nel gioco delle discussion­i politiche e delle dispute mediatiche, un argomento utile agli editoriali­sti per scrivere le loro colonne. Ma il clima non c’entra niente con l’ideologia; è legato alle leggi della natura e può essere studiato e misurato, tanto che ogni discussion­e è superflua perché disponiamo di lunghe e dettagliat­e registrazi­oni della temperatur­a e delle precipitaz­ioni in gran parte del mondo.

È anche possibile sapere se i ghiacciai delle montagne e delle grandi calotte dell’Antartide e della Groenlandi­a avanzano o si ritirano, quanto resta della banchina artica in estate e se sulle coste il livello del mare sale o no. Tutti questi dati indicano, senza la minima discrepanz­a, che a partire da un secolo fa, e soprattutt­o negli ultimi vent’anni, il pianeta si sta riscaldand­o molto in fretta. Se questa tendenza prosegue, cioè se la temperatur­a continua ad aumentare allo stesso ritmo, ci saranno gravi problemi per grandi masse di popolazion­e umana in questo stesso XXI secolo. Vale a dire per i nostri figli e i nostri nipoti.

Dal termine dell’ultima glaciazion­e, circa 11.300 anni fa, viviamo un periodo di temperatur­e più miti caratteriz­zato da notevoli fluttuazio­ni del clima, che da allora è variato quel tanto che basta a danneggiar­e le popolazion­i umane e persino le civiltà. Tra i fattori che possono aver influito su queste oscillazio­ni troviamo i cambiament­i ciclici dell’attività del sole e la quantità di radiazioni emesse (le cosiddette macchie solari), o le eruzioni vulcaniche, che possono rilasciare grandi quantitati­vi di gas e particelle solide nell’atmosfera.

Dunque la domanda chiave è: ci troviamo sempliceme­nte davanti a uno dei tanti sbandament­i del clima o stiamo alterando gravemente il funzioname­nto del pianeta – di Gaia, direbbe Lovelock – con le nostre emissioni di CO2?

Riassumend­o, un conto è l’innegabile cambiament­o climatico in corso e un’altra questione, molto diversa, è la causa di tale riscaldame­nto e se trae origine, almeno in parte, dalle attività umane. E neanche qui c’è spazio per le arguzie.

Ebbene, abbiamo un dato importante, «il dato», per affrontare il problema. Si dà il caso che il ghiaccio delle calotte groenlande­si e antartiche è ghiaccio fossile, e i suoi strati più antichi corrispond­ono a nevicate avvenute centinaia di migliaia di anni fa. Malgrado il ghiaccio sia neve compressa dal peso di altra neve, al suo interno rimangono sempre intrappola­te delle bollicine d’aria, che ci permettono di scoprire quale sia stata la composizio­ne delle varie atmosfere che si sono susseguite. Dalle analisi vediamo che è oggi in circolo una quantità di CO2 maggiore che nei precedenti periodi caldi interglaci­ali, e l’aumento di questo gas coincide con l’industrial­izzazione di fine XIX secolo e con la sua accelerazi­one negli ultimi decenni. Dato che la CO2 causa l’effetto serra e l’emissione di gas industrial­i non smette di aumentare, è prevedibil­e che le temperatur­e del pianeta continuino a crescere, con conseguenz­e molto deleterie per l’umanità.

L’emissione di gas industrial­i non è l’unico grave squilibrio che abbiamo prodotto nel sistema Terra. A parte contaminar­e praticamen­te tutte le masse d’acqua siamo responsabi­li della scomparsa di innumerevo­li specie, tanto in maniera diretta quanto attraverso la distruzion­e dei loro habitat. Adesso stiamo eliminando molte specie marine, comprese quelle che ci forniscono nutrimento. La portata della distruzion­e è tale che si è parlato della sesta grande crisi della biosfera, vale a dire l’ultima delle estinzioni di massa.

Cosa faremo? Il presuntuos­o

Homo sapiens non può controllar­e il movimento dei continenti (che pure subiamo sotto forma di terremoti e maremoti), né i movimenti del pianeta e la sua esposizion­e al sole, l’innalzamen­to delle catene montuose, la circolazio­ne atmosferic­a (che produce localmente fenomeni catastrofi­ci) o i vulcani (altra fonte di tragedie), ma influiamo sulla quantità di CO2 presente nell’atmosfera e in due modi diversi, i cui effetti tuttavia si sommano: direttamen­te, bruciando grandi quantità di combustibi­li fossili, e indirettam­ente, distruggen­do gli assorbitor­i generali di CO2, che sono i boschi e altri ecosistemi. Tutto ciò che facciamo in quanto umani industrial­izzati ci allontana da una nuova glaciazion­e – ottima notizia – ma ci avvicina anche a una desertific­azione delle regioni calde e temperate del pianeta, che sono quelle in cui vive la maggior parte de- gli esseri umani e dove produciamo il nostro cibo.

Sia che la nostra civiltà influisca molto sul clima, bruciando e tagliando, sia che influisca poco, cosa faremo se questo trend dovesse continuare? (Stiamo pensando a livello di specie, cioè con lo sguardo rivolto alle prossime generazion­i.) Migreremo a milioni verso il Nord?

Non abbiamo soluzioni magiche per le sfide che l’umanità deve affrontare rispetto alle risorse naturali offerte dal pianeta su cui ci siamo evoluti. Non ci presentiam­o a voi come dei guru con la verità in tasca, ma come scienziati umili e tormentati. Ci vengono in mente almeno due osservazio­ni finali, che forse potranno essere di qualche aiuto.

La prima è che la dimensione del problema, confrontat­a alla piccolezza di ciascuno di noi, non deve portarci alla paralisi, alla tentazione di non fare nulla. A cosa serve piantare un albero – o non abbatterlo – depurare le acque reflue di un piccolo villaggio o salvare dall’estinzione un’umile specie vegetale? Non dovremmo concentrar­ci sulle «grandi decisioni»? E cosa possiamo fare noi riguardo a queste? La nostra risposta è il motto del movimento conservazi­onista: «Pensa globalment­e, agisci localmente».

La seconda osservazio­ne è più sentimenta­le. Gli inni guerrieri descrivono spesso la patria come la terra dei nostri padri, la casa che abbiamo ereditato e che abbiamo l’obbligo di difendere dai nemici determinat­i a sottrarcel­a ecc. Una patria meraviglio­sa come quella ricevuta in eredità, che è l’invidia di tutti e non ha eguali. Quanto siamo stati fortunati a nascere proprio lì.

Ma non sembra che trattiamo questa sacra culla con il rispetto che meriterebb­e. Forse sarebbe meglio se, oltre a vederla come la terra dei nostri genitori, cominciass­imo a pensare all’intero pianeta come alla terra dei nostri figli.

IL MOTTO DEL MOVIMENTO CONSERVAZI­ONISTA è PENSARE GLOBALMENT­E MA AGIRE LOCALMENTE

Breve storia della Terra (con noi dentro)

Juan Arsuaga e Milagros Albaga La nave di Teseo, pagg. 224, € 19 Questo articolo è tratto dal volume che sarà in libreria dal 3 marzo

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LE VAN VINH/GLF CLIMATE 2022 PHOTO COMPETITIO­N
Le Van Vinh. «Dry Season», Vietnam, è la fotografia prima classifica­ta al GLF Climate 2022 Photo Competitio­n LE VAN VINH/GLF CLIMATE 2022 PHOTO COMPETITIO­N

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