LEE MILLER E MAN RAY, SCATTI DI VITA E AMORE
La mostra a Palazzo Franchetti dedicata all’attrice, fotoreporter di guerra e giornalista evidenzia soprattutto il rapporto con l’artista, di cui fu amante, musa e collaboratrice
Racconta Antony Penrose, il figlio di Lee Miller (1907-1977), di aver scoperto chi fosse sua madre solo dopo la morte di lei. L’aveva conosciuta come persona difficile e sgradevole, un’ubriacona rabbiosa. Fu la moglie di Antony ad aprire gli scatoloni nel solaio e ad estrarre migliaia di foto: il racconto non di una, ma di molte vite, il cui insieme ha qualcosa di incredibile. Quella sfatta, sciatta figura era stata, in anni e in àmbiti di cui non aveva mai parlato, una delle donne più belle del ventesimo secolo, di una bellezza tuttora sconvolgente; modella dei fotografi più grandi dopo aver posato adolescente per il padre (in una serie di nudi che oggi gli sarebbero costati la galera), Steichen, Genthe, Hoyningen-Huene; amante, musa e collaboratrice di Man Ray nella Francia degli anni Trenta; attrice per Le Sang d’un poète di Cocteau; fotografa davanti al cui obiettivo è passata la cultura di mezzo Novecento, oltreché l’alta moda; fotoreporter di guerra, cui si devono i servizi più drammatici mai pubblicati da «Vogue»; giornalista, epistolografa e diarista della quale, quando si riuniranno gli scritti che compaiono in forma sparsa nei libri pubblicati su di lei, si capirà l’autentica grandezza, già presagibile; cuoca di altissimo rango e vincitrice di concorsi (un delizioso libro uscito in Inghilterra nel 2019 contiene molte delle sue ricette).
Ogni volta era come se Lee Miller ricominciasse da capo, imparando velocemente sul campo, investendo di una formidabile energia tutto ciò che affrontasse, irradiando uno splendore, una sicurezza e un’energia tali da esaurire le altrui riserve (si saziava presto di ogni cosa; la sua impazienza fu la disperazione di innumerevoli amanti). Recava su di sé il marchio di cui ha scritto Kay Redfield Jamison in Toccato dal fuoco, le stìmite del genio e della depressione, dell’esaltazione e dell’auto-distruzione.
La mostra che Venezia dedica ora a Lee Miller presso Palazzo Franchetti, con un eccellente catalogo Skira, è imperniata sul rapporto con Man Ray, al quale Lee si propose (anzi, si impose) come allieva, incontrandolo al Bateau Ivre di Parigi nella primavera del 1929. Man Ray era il fotografo da cui imparare tutto, le aveva detto Steichen a New York. Lei fece di più: creò un sodalizio umano e artistico senza eguali. Per tre anni condivisero tutto, il trasporto erotico e l’intesa intellettuale, la vita brillante nella café society di quegli anni, la sperimentazione e la scoperta di tecniche fotografiche, la felicità di una libera vita sessuale che oggi, nell’epoca del neopuritanesimo e dei pixel di OnlyFans, appare autentica in un modo impensabile. Così com’è impensabile la fierezza con la quale Lee posava nuda anche dopo aver precocemente perso i suoi good looks.
Del corpo di Lee Miller, gli occhi chiari e trafiggenti, l’oro dei capelli, il torso bianco e androgino con la meravigliosa forma dei seni, strabici come gli occhi di Sartre, Man Ray si innamorò quanto del carisma e del talento. Ne fece non soltanto un oggetto di rappresentazione, ma il tool della composizione, la sua causa materiale: in un certo senso superandone la dimensione fisica. Come scrisse Robert Desnos, «Man Ray, ritrattista di uomini e fantasmi, contribuisce all’atroce conquista dei misteri che ci circondano», e di tale conquista il corpo di Lee è strumento attivo. Contornato dalla solarizzazione come da un alone immateriale, smontato e rimontato nel gioco surrealista (l’occhio di Lee appeso a un metronomo, ma anche le labbra rosse e allungate nel più celebre dei dipinti di Man Ray), catafratto da strane reti metalliche, rovesciato su se stesso e reso forma pura, striato di bianche onde elettriche, quel corpo è insieme epifania della bellezza e segnavìa di qualcosa che la eccede.
La fotografia di Lee Miller si forgia nella fucina di Man Ray: alcuni esiti del periodo vissuto con lui sono sovrapponibili, tanto coerente è il paradigma formale: ma nel momento in cui Lee imbocca la propria strada, conquistando negli anni poi trascorsi in Egitto un’originale intuizione dello spazio, investigando la psiche nei ritratti e negli autoritratti, infine inventandosi il mestiere di corrispondente sul fronte di guerra, la direzione assunta è tutt’altra. Il suo occhio ha una presa fulminea sul reale, stabilisce con la realtà un rapporto così diretto da eludere ogni paragone.
Il suo magistero è conquistato quando fotografa la tragedia, le rovine di Londra (in cui riesce addirittura a ambientare servizi di moda), i bombardamenti su Saint-Malo, il plotone d’esecuzione che carica le armi; e il lutto. Negli ultimi giorni di guerra percorre la Germania, fotografa i corpi dei nazisti suicidi, la figlia del vicesindaco di Lipsia riversa su un divano capitonné dal quale si è staccato un bottone (il punctum!), il cadavere di un milite delle SS sotto il pelo dell’acqua, in immagini che sembrano galleggiare oltre il tempo e la storia. Poi approda a Dachau e conosce e fotografa l’orrore, i corpi ammonticchiati, i volti senza più carne, i grovigli di braccia e gambe indistinguibili: è il 29 aprile 1945, Hitler si ucciderà il giorno dopo. Nell’appartamento monacense del Führer Lee Miller arriva, coperta di fango e del sangue dei cadaveri squarciati, e si stende nuda nella vasca da bagno. Lei stessa cura la composizione ed è un altro grande fotografo, l’amico David Scherman, a scattare.
Quella fotografia è un’icona del Novecento ed è anche il confine estremo dell’arte di Lee Miller. Scatterà ancora: di poco successiva è una delle sue foto più belle, la sagoma del soprano Irmgard Seefried che intona un’Aria di Puccini tra le rovine dell’Opera di Vienna, un’immagine di infinita commozione lirica. Ma sentirà il bisogno di chiudere il capitolo.
Nei tardi anni parlò pochissimo delle atrocità di cui era stata testimone: le rivisse in solitudine, chiudendo un cerchio di dolore che si era aperto quando, a sette anni, venne stuprata a New York e contrasse la gonorrea; le respinse nell’alienazione dell’alcool. Oggi permane ed è fortissimo il mito di Lee Miller (è imminente l’uscita di un biopic con Kate Winslet), ma non c’è mito che pareggi la vita, anzi le vite, che Lee ha vissuto.
DONNA BELLISSIMA, HA IMMORTALATO GLI ORRORI DI DACHAU E SI è FATTA RITRARRE NUDA NELLA VASCA DA BAGNO DI HITLER
Lee Miller-Man Ray. Fashion. Love. War Venezia, Palazzo Franchetti Fino al 10 aprile