LA BELLEZZA DI ANDARE IN BIANCO
Nella brillante opera di approfondimento di arte, storia, simboli, scienza e tecnica dei colori, messa in campo in questi anni da Michel Pastoureau, l’ultima tappa in ordine di tempo è rappresentata dal bianco.
Il libro a esso dedicato parte da unprecisoassunto:«ilbiancoèuncolore»,anziuncolorediprimopianoal paridelrosso,delblu,delnero,delverde e del giallo. Oggi è normale affermarlo, ma per secoli non è stato così.
Nel mondo antico il bianco ebbe un ruolo importante. Intanto era ben visibile in natura nelle ossa, nei denti, nei velli e nei piumaggi degli esseri viventi, nelle rocce, nelle terre, nel latte, negli astri (luna e stelle), nelle nuvole, nelle nevi e nei ghiacci. Nessuna lingua antica associò mai il bianco a un «non colore». Anzi. Il bianco era spesso uno degli attributi degli Dei (Zeus in particolare), e Platone sottolineò che il bianco era il colore più adatto al culto divino perché era il più puro e il più bello. Tuttavia, le statue e gli edifici di marmo dell’antica Grecia non erano bianchi come si potrebbe supporre, ma vivacemente colorati. Fu la progressiva caduta e sparizione delle fragili policromie a far credere, soprattutto in età rinascimentale e poi neoclassica, che l’arte plastica del mondo antico fosse caratterizzata da un nitore accecante. Gli antichi avevano però imparato bene a tingere di bianco le stoffe (i civesromani di rango vestivano toghe candidissime) e il bianco divenne un colore decisivo anche nella cultura cristiana dei primi secoli, quale simbolo di purezza, bellezza, giubilo e santità. Non ultimo, il bianco divenne attributo stesso di Cristo, e da qui deriva l’uso come colore liturgico e tinta specifica degli abiti del Papa e di alcuni ordini monastici. Poi, specialmente in Francia, fu anche il colore della monarchia, che aveva mutuato dal bianco giglio (simbolo di purezza) il marchio araldico della sovranità.
A dare un colpo micidiale al bianco quale colore a tutti gli effetti fu, a metà Quattrocento, l’invenzione della stampa. Qui maturò l’equivalenza fra «bianco» e «incolore» e il ruolo della carta sembra essere stato determinante. La carta (che soppiantò la pergamena), contrapposta al nero dei caratteri a stampa o delle linee delle incisioni, finì col rappresentare una sorta di «grado zero» del colore. Il bianco divenne così un «non colore». E a rincarare la dose arrivò nel Seicento Isaac Newton che, scoprendo lo spettro dei colori, propose al mondo un nuovo ordine cromatico nel quale non vi era più spazio né per il bianco né per il nero.
Per fortuna gli artisti non daranno mai gran peso alle conclusioni di Newton e continueranno a tenere sulla tavolozza i candidi pigmenti del bianco e soprattutto a utilizzare l’apprezzatissima biacca.
A fine Settecento il bianco tornò alla ribalta su altri fronti: da simbolo di purezza diventò sinonimo di pulizia e salute, grazie anche all’isolamento chimico del cloro (1774) e alla messa a punto della candeggina (1775-1777). Tele, biancheria, lenzuola e altre stoffe messe a contatto con il corpo dovevano essere adesso rigorosamente bianche. Per analoghe ragioni, ci si abbigliò di bianco in molti e diversi contesti sociali, dai lavoranti del cibo (cuochi, lattai, panettieri) alle maestranze di cantiere (muratori, stuccatori, imbianchini) agli addetti alla sanità (i camici bianchi dei medici). Per non parlare dell’alta moda femminile. Già Goethe, nel 1810, osservava: «Ai giorni nostri, le donne vestono unicamente di bianco e gli uomini di nero». Il bianco diviene il colore femminile per eccellenza, ed è ora che le spose cominciano a vestirsi solo di bianco (soprattutto per sottolineare lo stato virginale). Curioso sapere che anche i primi sportivi indossarono divise bianche, ma stavolta per ragioni pratiche: insudiciandosi molto durante le gare, le maglie dovevano essere lavate mediante bollitura; quelle di altri colori si sarebbe velocemente sbiadite, le bianche rimanevano intatte.
Come sempre, Michel Pastoureau conclude i suoi affascinanti viaggi nei colori soffermandosi su simboli ed espressioni correnti, come il «vino bianco» (che bianco non è) o la «pelle bianca» (che non esiste, ma veniva prodotta dai pesanti trucchi delle matrone romane o dei cicisbei del Settecento). E infine, l’idea di bianco come vuoto o assenza si dimostra piuttosto dura a morire. Sopravvive infatti in molti modi di dire come «consegnare un foglio bianco», «firmare un assegno in bianco», «votare scheda bianca» e «passare la notte in bianco». Ma ancor peggio è vivere un «matrimonio in bianco».
Bianco. Storia di un colore
Michel Pastoureau Ponte alle Grazie, pagg. 238, € 35