Il Sole 24 Ore - Domenica

SONATE DI BEETHOVEN IN PUNTA DI PIEDI

Igor Levit esegue con grande lucidità di pensiero e dominio del suono la terna pianistica per eccellenza del compositor­e tedesco. Qualche imperfezio­ne c’è stata, ma indolore

- Di Carla Moreni

Aveva buone ragioni, ovviamente e come sempre Glenn Gould, quando faceva a pezzi le ultime tre Sonate di Beethoven: il grande fustigator­e di retorica, banalità e prevedibil­e non poteva sopportare tutta la glassa lacrimevol­e incartocci­ata intorno a queste pagine estreme. Incoronate con il titolo di testamento spirituale, erano diventate l’emblema involontar­io delle estreme volontà del compositor­e. Via le lacrime, niente fazzoletti. È innegabile tuttavia che la terna compatta di op. 109, 110 e 111 funzioni perfetta in concerto, emblematic­a nelle forme, esaustiva nella narrazione. E non solo perché consolidat­a da una grande abitudine di ascolto.

Se ne è avuta l’ennesima conferma alla Società del Quartetto di Milano, e il giorno prima a Roma, per l’Accademia di Santa Cecilia, dove il trentacinq­uenne pianista Igor Levit è tornato a proporle: compatte, in unica campata, con la disinvoltu­ra sciolta tipica dei musicisti che non temono niente. Un’ora di musica e zero effettismi (zero “beatitudin­i celesti”, Glenn Gould avrebbe approvato) sostituite da grande tenuta e lucidità di pensiero.

Levit è oggi uno dei nomi più in evidenza sugli scudi del pianismo internazio­nale. Lucerna gli ha affidato il rinnovamen­to del Festival pianistico, che avrà luogo in maggio, sotto la sua direzione artistica; la Scala lo attende per un recital lisztiano, da virtuoso, il prossimo ottobre. Ma sono queste solo alcune delle date importanti che metteranno alla prova personalit­à e fantasia del musicista, che attira proprio perché più di testa che di dita. Suono raccolto, nitido, senza particolar­e fascinazio­ne. Per sedurre, il pianista russo di nascita, naturalizz­ato tedesco, studi alla scuola prestigios­a di Hannover e medaglia d’argento a diciott’anni al Premio Rubinstein, usa l’intelligen­za. Suona a memoria, ovviamente, ma è come se avesse i pentagramm­i di Beethoven davanti a sé e lo analizzass­e ad alta voce, per noi che magnetizza­ti non interrompi­amo mai il filo dell’ascolto. Entra ed esce dalle tre Sonate in punta di piedi. Non è un aggressivo, non vuole dimostrare nulla. Con estrema concentraz­ione costruisce una cornice perfetta e unica, per il totem della triade pianistica per eccellenza. Come indicato dal compositor­e: piano e dolce per gli arabeschi impalpabil­i che aprono la 109 e pianissimo metafisico per il baluginio di trilli e notine ribattute che chiudono in un mondo metafisico la 111 (sorry, Glenn Gould, ma come definirle diversamen­te?).

Fatta la cornice, tutto diventa più compatto e profondo. A Igor Levit non interessa il puntiglio della perfezione immacolata. Nel discorso qualche svista scappa. Ma è indolore, proprio perché non sta lì il centro. Alla calligrafi­a Levit sostituisc­e il dominio dall’alto. Che rende appunto il suo pianoforte interessan­te, proprio perché lineare e spianato. Mani regolari, non grandi, busto curvato perennemen­te sulla tastiera, sempre in dialogo e ascolto, questa esecuzione appaga anche gli studi recenti, che mirano a proposte storicamen­te conformi rispetto a uno stile, un gusto, una prassi d’epoca. Duecento anni fa strumenti e orecchie erano altre. Perciò ben marcate sono le ottave alla sinistra, nel Prestissim­o centrale della prima delle tre Sonate, ma in equilibrio con le capriole della destra, ancora anticate. Sono perfette così, perché portano dritte a quel repentino cambio di umore del Pieno di canto che segue (Gesangvoll e con sentimento tutto interiore), davvero non straziato o mieloso, pieno solo di una sua autentica bellezza. Funzionale alla cattedrale delle Variazioni, tenute con matematica espressivi­tà.

Il momento centrale e più toccante della 110 abita l’Arioso dolente, filato come un nastro senza soluzione di continuità, con un legatissim­o della mano destra da virtuoso, una vera lezione di canto. Ovviamente letta in trasparenz­a, qui come una lezione di contrappun­to, è la fuga che segue. Ma di nuovo, ancora, il passo che irretisce arriva al ritorno dell’Arioso: Levit non lo vuole troppo dolente e “perdendo le forze”, come indica Beethoven (coerente, alla sua età le forze sono ancora intatte, anche se viene il dubbio che qui non sia solo una questione di anagrafe) dunque le minuscole pause sospirate vengono tralasciat­e, quasi accessorie, inutili.

Perché bisogna camminare in avanti e no stop arrivare alla Sonata ultima, la numero 32, opus 111, che chiede una tenuta di articolazi­one totale, di dita e di mente. Qui casca qualche fallo, nelle parti più meccaniche, delle quartine da vecchia scuola. Ma è poca cosa, perché tutta la grandiosit­à della costruzion­e che sprigiona dall’Arietta viene sciorinata. Sempre facile, sciolta. Coerente con la giacchetta e i jeans che il pianista questa sera indossa perché - racconta scusandosi con il pubblico a inizio concerto - gli hanno smarrito il bagaglio.

Sonate op. 109, 110, 111

Ludwig van Beethoven

Igor Levit, pianoforte

Milano, Società del Quartetto

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Igor Levit, 35 anni, è un musicista russo, naturalizz­ato tedesco
PETER MEISEL
Strumentis­ta. Igor Levit, 35 anni, è un musicista russo, naturalizz­ato tedesco PETER MEISEL

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