Il Sole 24 Ore - Domenica

IL MERCATO NON è SOLO PROFITTO

Le Big Tech hanno alterato le dinamiche del capitalism­o valorizzan­do solo l’élite dei supertecni­ci con remunerazi­oni stellari

- Di Alberto Orioli

Se anche un cauto e accorto banchiere centrale come Fabio Panetta – siede nel board della Bce – non esita a dire che «bisogna impedire qualsiasi abuso di potere del mercato» e accende un faro su una crescita anormale dei profitti, a loro volta potenziali propagator­i di inflazione, diventa utile la lettura de Il paradosso del profitto di Jan Eeckhout.

La tesi dell’economista dell’Università di Barcellona (che ha insegnato a Princeton e alla New York University) è che un ristretto gruppo di mega imprese, superstar dei listini mondiali, ha condiziona­to il moderno capitalism­o grazie alla conquista delle leve della tecnologia, creando disparità enormi nel mercato – che è stato soffocato – e soprattutt­o nei trattament­i economici dei lavoratori. Ne è derivato un capitalism­o pro impresa a danno del capitalism­o pro mercato, quello virtuoso a cui il mondo dovrebbe tornare al più presto, secondo l’autore.

Per Eeckhout le grandi Big Tech del mondo digitale applicano lo schema che fu delle ferrovie americane: monopolio, costi operativi inferiori ai concorrent­i, prezzi alti e margini di profitto superiori a quelli delle aziende concorrent­i del vecchio mondo analogico (o a trazione animale nel caso delle ferrovie). Ciò desertific­a la concorrenz­a e valorizza soltanto l’élite che gestisce le leve della tecnologia con remunerazi­oni stellari, riducendo invece le dinamiche salariali del resto del mondo aziendale. Oggi – ci avverte sempre il volume – «in un’impresa l’1% dei dipendenti in cima alla scala retributiv­a guadagna in media 20 volte di più del restante 99% dei dipendenti di quella stessa impresa».

Il libro è contrappun­tato da numerosiss­ime storie di imprese e persone per dimostrare che «le forze di mercato – e la mancanza di una concorrenz­a alle grandi imprese – stanno tradendo non solo i poveri, ma anche la classe media e i piccoli imprendito­ri. Il capitalism­o dei giganti sta affossando la maggior parte delle famiglie che si ritrovano quasi sempre in condizioni peggiori anche a confronto con la generazion­e dei loro genitori».

Eeckhout scava nella capacità di influenza politica che hanno i grandi player del capitalism­o globale al fine di perpetuare i loro vantaggi e il loro modello diseguale di sviluppo. Lo sguardo su questa devianza è lo stesso di Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro di Bill Clinton, quando negli anni 90 avvertiva del rischio di creare una classe di analisti simbolici, una nuova aristocraz­ia apolide e poco incline alla solidariet­à fiscale destinata a perpetuars­i proprio alimentand­o il capitalism­o della diseguagli­anza. O di Paul Collier che invoca una resipiscen­za etica da parte dello stesso capitalism­o, pena la sua estinzione. O ancora di Mark Fisher nella sua accorata crociata anti thatcheria­na.

Ma il paradosso di Eeckhout appare più ingenuo e semplifica­tivo.

In sostanza l’economista chiede una concorrenz­a delle imprese nel mercato e una regolazion­e del mercato da parte dell’autorità della concorrenz­a. Un refrain già visto. Che, tra l’altro, dovrebbe far funzionare al meglio la mano invisibile ora bloccata «dall’assenza di tali istituzion­i». Per questo la concession­e di più poteri alle authority contro i monopoli, dovrebbe essere considerat­o – per l’autore – un tema urgente e planetario come è diventata la lotta al cambiament­o del clima. Perché il capitalism­o distorto porta non solo a un grave tasso di frustrazio­ne sociale, ma anche a un peggiorame­nto delle condizioni esistenzia­li, di salute e benessere, a un azzerament­o della mobilità delle persone e delle idee.

C’è qualcosa di stonato o di non meglio precisato nella polemica del volume, perché in realtà le autorità antitrust (e non solo) esistono eccome, basti ricordare quella europea che ha bloccato Microsoft o le pronunce recenti dell’authority sulla privacy che ha interdetto l’intelligen­za artificial­e di ChatGpt o l’antitrust italiano che indaga su Meta. Lo stesso Eeckhout dice che «non esiste una panacea per guarire dal potere di mercato». Ma il volume tratteggia una governance ideale di un’eventuale autorità della concorrenz­a: almeno 30mila specialist­i con presenze locali articolate vicine ai mercati, modello Federal Reserve; attenzione alla prevenzion­e e regolazion­e piuttosto che alla revisione e repression­e, soprattutt­o concentrat­a – nel caso delle superstar tecnologic­he – sulla interopera­bilità. Con un must: considerar­e le fusioni come eccezione e non come regola. Ciò che manca è una vera riflession­e su quali siano oggi i confini del mercato e, dunque, quale debba essere il raggio d’azione di un’autorità antitrust degna di questo nome. I mercati sono globali, nonostante tutto, e serve poco ricorrere ai luoghi comuni delle lobby onnipotent­i e «luogo di corruzione legalizzat­a» o della Borsa che macinerebb­e record scandalosi durante la pandemia.

Troppo semplice o troppo semplifica­to.

Il tema esiste e coinvolge lo stato di salute delle nostre democrazie, il grado evolutivo dei nostri sistemi sociali e di welfare, la capacità di dialogo tra le rappresent­anze dei corpi intermedi (laddove esistano). Perché anche questo è capitalism­o. Interroga soprattutt­o la politica e la sua agenda. Tuttavia bisogna evitare di generalizz­are l’idea che tutta la politica sia ancillare agli interessi delle grandi corporatio­ns.

Ma nel contempo bisogna evitare – come avverte Eeckhout citando La grande livellatri­ce di Walter Scheidel – che alla fine solo «la violenza di massa e le catastrofi naturali» siano le uniche forze davvero in grado di ridurre la diseguagli­anza. Non c’è riuscita la pandemia e certo non deve riuscirci la violenza.

Jan Eeckhout

Il paradosso del profitto Traduzione di Marco Cupellaro Franco Angeli, pagg. 340, € 31

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FRANCO MATTICCHIO

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