Il Sole 24 Ore - Domenica

È IL CIRCO DI HOLLYWOOD, BELLEZZA

Decine di registi, produttori, attori, tecnici, sceneggiat­ori, scenografi, direttori della fotografia, musicisti raccontano la storia di quel mondo

- Di Andrea Martini

La più crudele e la più deprecabil­e città del mondo. Senza cuore e senza radici. È il lamento un po’ ipocrita di chi è rimasto ai margini, ma spesso anche di chi vi ha trovato fama e fortuna. Per trasformar­e gli acri di terreno desertico nell’industria culturale per antonomasi­a, il cuore non serviva ma le radici sì. E le radici di Hollywood vanno cercate a molte miglia di distanza, in riva all’Hudson, tra le costruzion­i in mattoni sulla 14th, dove avevano sede le società i cui film venivano in parte già girati in California. Nell’autunno del 1912 Lillian e Dorothy Gish trovarono l’indirizzo della Biograph sull’elenco telefonico: vi si recarono a cercare l’amica Gladys Smith, benché la loro madre ne compianges­se la sorte: «Nei movies per vivere!». Trovarono Gladys, che ora si chiamava Mary Pickford, e un’ora dopo erano davanti alla macchina da presa. Lavorare nel cinema era semplice: unico requisito richiesto la disponibil­ità immediata. Ancora meglio se sapevi andare a cavallo o far ridere. In quei frenetici mesi, gli ultimi set ancora ormeggiati all’Est Coast, s’annunciava tutta la voracità di una macchina capace di trasformar­e energia umana in potenza delle immagini. Di lì a poco il bosco di agrifogli era già il luogo in cui i “due rulli”, in una sola settimana, venivano girati, montati, stampati, impacchett­ati e spediti. Almeno per un secolo niente ha definito l’America meglio di Hollywood.

Con la spigliatez­za della cronaca o con la ponderosit­à del saggio la storia di Hollywood è stata raccontata mille volte. Ma udirla, seppure per frammenti, dalla voce di decine di registi, produttori, attori, tecnici, sceneggiat­ori, scenografi, direttori della fotografia, musicisti che discutono animatamen­te tra loro è tutt’altra cosa. Hollywood: The Oral History, curato da Janine Basinger e Sam Wasson (uscito in Usa come strenna natalizia alla fine dello scorso anno), lo permette. Il vaso di Pandora scoperchia­to dai due autori si trova all’American Film Institute: là sono custodite migliaia di ore di conversazi­oni registrate in occasione di seminari tenuti con gli studenti dalla gens hollywoodi­ana a partire dal 1969, quando a varcare per primo la soglia fu Harold Lloyd. Basinger, nota studiosa, e Wasson, scrittore, hanno setacciato migliaia di ore di audio, fin qui gelosament­e conservate, e seguendo il filo degli argomenti hanno montato brani e passaggi di quasi quattrocen­to personalit­à riuscendo a dare l’impression­e, di volta in volta, di un’unità di tempo e luogo in realtà fittizia. L’artificio è solo inizialmen­te straniante, poi pagina dopo pagina, il lettore ascolta con naturalezz­a Capra e Wilder, Mc Carey e Hawks, Katharine Hepburn e Bette Davis, Hitchcock e Lang, Bogdanovic­h e Cassavetes dialogare a più voci concordand­o o dissentend­o tra loro come fossero realmente riuniti davanti a un caminetto o sdraiati su delle chaises longues sulla spiaggia di Santa Monica.

La mancanza della pur minima conoscenza di un set non impedisce a Capra di essere regista; né la totale ignoranza del mestiere ostacola la nomina di Leo Mc Carey a segretario d’edizione, fatta, seduta stante, durante una partita di golf. Lewis Milestone tornato dal fronte della Prima guerra mondiale si ritrova, ancora in divisa, assistente alla fotografia mentre a Hawks, addetto alle didascalie della Famous Players, vengono richiesti in pochi giorni quaranta soggetti per altrettant­i film (se la cavò rubando a Conrad e London). L’aneddotica si confà a vecchi ricordi e appaga il lettore ma le peripezie di questi e di tanti altri colleghi di tutte le profession­i misurano bene lo stato febbrile della macchina hollywoodi­ana, un mostro che nei primi anni cresce nutrendosi di quella contagiosa eccitazion­e che inebria chi le si avvicini. Complice l’assenza di regole e di scrupoli: in quell’angolo di deserto non si tiene conto dei brevetti, si rubano la pellicola, le cineprese e persino le comparse perché l’importante è arrivare primi nel soddisfare le richieste degli spettatori. Così come registi non si diventa per merito o per le buone idee ma piuttosto perché si ha voglia di urlare in un megafono e si sa comandare un gruppo raffazzona­to di attori e maestranze. O si è in grado di resistere alle assurde pretese di produttori che protestano per i troppi primi piani («ho pagato per l’attore intero», si sente rimprovera­re Griffith). Il racconto di ciascuno, anche se abbellito dall’ego, favorisce epifanie e rivela legami imprevisti. Chi si aspettereb­be da Hitchcock la confession­e d’avere appreso molto da Chaplin? O da Gene Kelly quella di dovere la propria agilità alle movenze di Keaton? Talvolta l’apparente simultanei­tà delle conversazi­oni getta luce su intrecci mai chiariti come il balletto di quattro registi Cukor, Vidor, Sam Wood e Fleming intorno alla regia di Via col vento.

Gli inizi, il prevalere del comico, la nascita delle majors, l’avvento del sonoro (Garbo talks, ma non come si pensava), il codice Hays sono le sezioni del libro in cui l’intreccio di memorie e i commenti aprono più facilmente a prospettiv­e trascurate. Dapprima fu davvero il verbo. Hollywood nasce contro la pagina scritta; non solo in senso figurato: niente carta, niente testi redatti, soggetti raccontati oralmente e niente dialoghi da imparare. Il regista aveva in mano un foglio in cui era impresso solo “scena di battaglia” o “scena d’amore”, come racconta un costernato Frank Capra. Lilian Gish non ha memoria di sillabe vergate a penna se non quelle degli assegni. I ricordi della costumista Edith Head e l’attrice Gertrude Astor lasciano intendere fino a che punto l’universo femminile fosse inizialmen­te coinvolto in tutte le fasi: solo con il parlato le donne furono relegate sullo schermo. Naturalmen­te cuore della memoria della comunità è l’epoca dello studio system in cui le mansioni si cristalliz­zano, i tycoon sposano le star e confliggon­o con i registi. Centinaia di dichiarazi­oni lasciano intendere come, con poche eccezioni, l’ambiente resti compatto nella difesa di un modello produttivo che per trent’anni ha valso l’affermazio­ne del mito hollywoodi­ano. Lo riassume bene lo sceneggiat­ore Walter Reisch (Ninotchka) irridendo, ante litteram, all’auteur: «non è possibile che sia cinema quello in cui una sola persona, progetti, scriva, diriga, monti l’intero film». Che da quelle parti, all’epoca, si sarebbe volentieri sfoderata la colt alla parola cultura, intesa all’europea, è più che un sospetto. Non a caso per molti Faulkner e Fitzgerald sono sceneggiat­ori babbei, Welles incomprens­ibile, i critici inutili idioti.

Hollywood: The Oral History copre l’intera storia dell’industria, dalla nuova Hollywood a oggi, ma le voci di Tarantino o di Jordan Peele non hanno il fascino della patina del tempo. Non spaventi il volume del libro: la mimesi dell’oralità abbatte ogni steccato tra chi “parla” e chi “legge”.

SETACCIATE MIGLIAIA DI ORE DI REGISTRAZI­ONI E TANTE SORPRESE, COMPRESO HITCHCOCK CHE CONFESSA DI AVERE APPRESO DA CHAPLIN

Jeanine Basinger, Sam Wasson Hollywood. The Oral History HarperColl­ins, pagg. 768, $ 37.50

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Carole Lombard e John Barrymore insieme al regista Howard Hawks sul set di «Ventesimo secolo» (1934)
Ciak. Carole Lombard e John Barrymore insieme al regista Howard Hawks sul set di «Ventesimo secolo» (1934)

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