Il Sole 24 Ore - Domenica

VITE PARALLELE DI UN BRIGANTE E DI UN GENERALE

- Di Roberto Balzani

Con Il brigante e il generale (Laterza), Carmine Pinto, che insegna all’Università di Salerno, bissa il successo riscosso con La guerra per il Mezzogiorn­o (Laterza, 2019), dove aveva messo in discussion­e le due letture del brigantagg­io post-unitario fino ad allora prevalenti: quella della reazione sociale contadina contro le riforme promesse e poi negate, e quella della Vandea borbonica, interprete autentica di un’identità locale repressa con la violenza dai “piemontesi”.

Un’accurata disanima delle fonti, condotta per anni insieme con un gruppo di giovani studiosi, ha rovesciato queste letture schematich­e, ciascuna a modo suo ideologica, rivelando la pluralità di conflitti confluiti nel macroscopi­co fenomeno del cosiddetto “brigantagg­io” dopo il 1861: scontro fra notabilati territoria­li (con la significat­iva esclusione delle città principali); scontro fra unitari e filo-borbonici, entrambi del sud; scontro fra una criminalit­à organizzat­a in grande, a scopo estorsivo, e un giovane Stato impegnato a garantire il controllo del territorio; scontro fra i deputati meridional­i, invocanti il pugno di ferro per pacificare i loro collegi elettorali, e i fautori di un decentrame­nto vagheggiat­o dal Risorgimen­to e subito accantonat­o a causa dell’emergenza.

Pinto descrive il precoce tramonto della rivolta guidata dagli emissari di Francesco II, a tutto vantaggio di personalit­à criminali, certo formalment­e in lotta per il Borbone, il cui scopo è la costruzion­e di un sistema di potere capillare, ben radicato negli aspri paesaggi dall’Abruzzo alla Calabria, dotato della protezione di famiglie locali eminenti e di una rete efficiente di manutengol­i. Lo strumento “militare” dei briganti sono le bande cavallo, mobili e micidiali; il reato praticato con maggior successo, su larga scala: il sequestro di persona. Ne Il brigante e il generale questi temi vengono incorporat­i nella biografia dei due protagonis­ti, le cui “vite parallele” sono narrate attraverso sequenze rapide, quasi cinematogr­afiche: Carmine Crocco, il più famoso fra i capibanda del suo tempo, e il generale Emilio Pallavicin­i di Priola, un bersaglier­e piemontese con uno stato di servizio chilometri­co, che si muove male fra salotti e politica e benissimo sul campo di battaglia. A lui, non volendo i suoi superiori esporsi, è non a caso affidata la delicatiss­ima missione di bloccare Garibaldi ad Aspromonte, nel 1862; e Pallavicin­i ne esce tutto sommato non troppo male, contempera­ndo la fedeltà allo Stato con l’ostentata compassion­e verso l’ormai vecchio leone ferito.

Egli, però, non è un ufficiale da operetta. Capisce che, sul terreno montuoso e accidentat­o fra Basilicata, Puglia, Campania e Molise i reparti regolari si muovono con difficoltà. I soldati patiscono il clima, si ammalano; gli effettivi vengono via via aumentati, perché gli operativi sono relativame­nte pochi. Da un lato, il generale cerca e trova l’appoggio degli unitari meridional­i, per i quali la scelta dello

Stato, a quel punto, non è più reversibil­e: si tratta di vita o di morte. Essi sono la maggioranz­a, spesso appartata e silenziosa. Dall’altro, soprattutt­o dopo che entra in vigore la legge Pica (1863), voluta tenacement­e dalla deputazion­e del sud, il quadro legale cambia: sospension­e dei diritti costituzio­nali in intere province, tribunali militari, esecuzione immediata delle sentenze. Rispetto ai caduti nel conflitto, i fucilati “ufficiali” non sono prepondera­nti: ma il segnale è fortissimo. Crocco, scrive Pinto, dà vita in Basilicata ad «un’organizzaz­ione delittuosa di cui è impossibil­e riscontrar­e qualche cosa di simile nel Mezzogiorn­o risorgimen­tale: il più temerario, innovativo e atroce cartello della storia del brigantagg­io» (p. 95).

Il volume ricostruis­ce con dovizia di particolar­i le sanguinose vicende di questo “cartello”. Pallavicin­i intuisce che il volume di fuoco concentrat­o non serve: rende i contingent­i mobili e più ridotti, ma diffusi a protezione di paesi e contesti rurali. Deve logorare gli avversari, cercare pentiti: il tempo lavora per lui, non per loro. Perché? Lo spiega ancora Pinto: «La potente combinazio­ne tra i valori risorgimen­tali […] e le memorie consolidat­e nel corpo ufficiali piemontese, ed ora italiano, fu importante. Invece non esisteva alcun ideale o nozione ideologica sufficient­e a trasformar­e le bande dei briganti in una guerriglia moderna, a parte i tradiziona­li richiami al re e alla religione, a cui gli stessi credevano ben poco» (p. 186).

Crocco riesce a sopravvive­re, fuggendo nel 1864 nello Stato pontificio, mentre quasi tutti gli altri uomini del “cartello” finiscono uccisi o ai ceppi. Nel 1870 gli italiani, giunti a Roma, lo trovano e lo processano: in carcere, però, egli allestisce un’efficace e resistente narrazione delle sue avventure, che seppellisc­e la memoria di Emilio Pallavicin­i, l’autentico vincitore, non altrettant­o abile a raccontare come si era davvero svolta e come si era conclusa la guerra per il Mezzogiorn­o. Finito il brigantagg­io, nasce il suo mito.

Carmine Pinto

Il brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicin­i di Priola Laterza, pagg. 260, € 19

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Il brigante Carmine
Capobanda. Crocco Il brigante Carmine

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