ALLA FONTE DEI COLORI E DELLA LUCE DI KLIMT
L’esposizione al Belvedere dimostra che l’artista trovò sé stesso attraverso l’ispirazione nata dal confronto con le avanguardie internazionali invitate in città dalla Secessione
Quando decise di farla finita con lo storicismo accademico, se ne staccò e con altri venti artisti fondò il gruppo della Secessione viennese (1897), Gustav Klimt aveva 34 anni: era un pittore celebre in città, rispettato, premiato dall’Imperatore, locupletato di commissioni prestigiose; ed era una sorta di piccolo imprenditore. Tutti lo riconoscevano come il successore naturale di Hans Makart, che con il proprio pennello flamboyant aveva decorato palazzi, teatri, soffitti di pubbliche istituzioni, atrii e scaloni. Morto improvvisamente Makart nel 1884, la «ditta» Klimt raccolse il testimone e proseguì: il passaggio è diretto, per citare un esempio, nelle lunette e nei riquadri che adornano l’ingresso del Kunsthistorisches Museum. La struttura urbana stabilitasi con la creazione del Ring intorno al centro cittadino, la stessa che caratterizza Vienna oggi, significava un’inesauribile riserva di edifici prestigiosi e di pareti nude da riempire con soggetti storici o allegorici, e nessuno come Klimt possedeva la tecnica fotorealistica richiesta dal gusto imperante.
Come dunque si arriva, partendo da queste premesse, agli esiti che rendono Klimt immediatamente riconoscibile, alla stilizzazione del Fregio di Beethoven (1901), all’estasi aurea del Bacio (1908-09), all’accensione coloristica violenta della Sposa (1917-18), il capolavoro incompiuto? Nella ricchissima esposizione visitabile presso il Belvedere viennese, in coproduzione con il Museo Van Gogh di Amsterdam (il titolo è in inglese: Klimt. Inspired by Van Gogh, Rodin, Matisse), la tesi critica è che l’artista abbia trovato sé stesso attraverso l’ispirazione, costante e rigenerantesi, offertagli da una serie di pittori: mutuandone tematiche, tecniche, soluzioni compositive, elementi grafici e formali, perché venissero inglobati nel proprio linguaggio. Le «prove» offerte sono apprezzabili e talora stupefacenti.
Per Klimt, che viaggiò pochissimo (una sola volta a Parigi, 1909) e che fino al 1903 aveva potuto vedere sì e no una decina di quadri degli Impressionisti, l’occasione di confrontarsi con le avanguardie internazionali coincise proprio con le mostre organizzate dalla Secessione: la prima, nel 1898, accolse 131 artisti stranieri e significò per Vienna un entusiasmo traumatico. Una dopo l’altra, le esposizioni rivelarono l’opera di Signac, Toorop, Van Rysselberghe, Minne, Khnopff, Segantini, Hodler, Munch. Si aprì un dibattito quale Vienna non aveva mai conosciuto intorno alle arti figurative, grazie a intellettuali come Ludwig Hevesi e Hermann Bahr (gli scritti di quest’ultimo sono disponibili anche in italiano). E dopo il 1905 e l’apertura della Galerie Miethke ad opera di Carl Moll, l’ondata divenne uno tsunami: Van Gogh (45 opere esposte nel 1906), Gauguin, Manet, Monet, Picasso, Derain, Matisse.
Nella prospettiva della mostra al Belvedere, ogni distinto periodo creativo e ogni scelta lessicale di Klimt corrispondono a una precisa influenza da parte degli artisti con i quali poté confrontarsi. Le tele esposte forniscono un criterio di verificazione immediato. Il linguaggio visuale simbolico di Stuck e Klinger ha riscontro nei temi trattati durante il «Periodo d’oro»; l’abito in quanto superficie astratta (Ritratto di Gertrud Loew, 1902, Ritratto di
Hermine Gallia, 1903-04) si ispira alle «sinfoniche» armonie tonali codificate da Whistler; le idee mistiche e filosofiche di Khnopff, con le possibilità espressive della tematica erotica, sono essenziali alla visione dell’archetipo femminile, da Giuditta a Salomé, di Klimt. Ma sono soprattutto le eterogenee integrazioni lessicali nel proprio linguaggio, e le metamorfosi che esse innestano, a permettere di rileggere per questa via l’intera opera klimtiana. Nel Beethoven-Fries ricorrono posture e moduli rappresentativi del corpo nudo che risalgono al repertorio di Rodin (che a Vienna vide e apprezzò il dipinto), di Minne e di Toorop. Sempre in quest’opera, in particolare nel coro angelico su prato fiorito, ritorna la scansione ritmica dell’Eletto di Hodler attraverso la mediazione stilistica di Margaret Macdonald Mackintosh. I paesaggi, e soprattutto l’impressione atmosferica dell’elemento liquido (Mattino presso lo stagno, 1899), riecheggiano il mistero delle acque ferme di Stuck e di Khnopff. I papaveri di Monet ritornano in una serie di tele del 1907. La pastosità della pennellata nel Viale nel parco dello Schloss Kammer (1912) tradisce l’influenza di Van Gogh; così come lo sfondo giapponese al Ritratto di Maria Beer (1916) riprende quello del Père Tanguy, sempre di Van Gogh. E, una volta accostati, la Donna con cappello piumato (1908) di Klimt e i manifesti di Toulouse-Lautrec, oppure il Ritratto di Johanna Staude (1917-18) e La ragazza dagli occhi verdi di Matisse, svelano qualcosa di più che una semplice aria di famiglia.
I due decenni nei quali Klimt ha sviluppato il proprio stile corrispondono a una fioritura culturale che non ha eguali nella storia di Vienna. Uscire dal XIX secolo volle dire affrancarsi dall’epoca «miserevole», come scrisse Hermann Broch nel celebre saggio su Hofmannsthal, «dell’eclettismo, l’epoca del falso barocco, del falso rinascimento, del falso gotico», e conquistare il primo piano nel panorama internazionale delle arti. Durò poco, fino alla guerra, all’epidemia di spagnola e all’affermazione dell’Espressionismo a Berlino: ma di quell’effimero prestigio ancor oggi Vienna vive.
Klimt. Inspired by Van Gogh Rodin, Matisse
Vienna, Unteres Belvedere Fino al 29 maggio