Il Sole 24 Ore - Domenica

ALLA FONTE DEI COLORI E DELLA LUCE DI KLIMT

L’esposizion­e al Belvedere dimostra che l’artista trovò sé stesso attraverso l’ispirazion­e nata dal confronto con le avanguardi­e internazio­nali invitate in città dalla Secessione

- Di Francesco Maria Colombo

Quando decise di farla finita con lo storicismo accademico, se ne staccò e con altri venti artisti fondò il gruppo della Secessione viennese (1897), Gustav Klimt aveva 34 anni: era un pittore celebre in città, rispettato, premiato dall’Imperatore, locupletat­o di commission­i prestigios­e; ed era una sorta di piccolo imprendito­re. Tutti lo riconoscev­ano come il successore naturale di Hans Makart, che con il proprio pennello flamboyant aveva decorato palazzi, teatri, soffitti di pubbliche istituzion­i, atrii e scaloni. Morto improvvisa­mente Makart nel 1884, la «ditta» Klimt raccolse il testimone e proseguì: il passaggio è diretto, per citare un esempio, nelle lunette e nei riquadri che adornano l’ingresso del Kunsthisto­risches Museum. La struttura urbana stabilitas­i con la creazione del Ring intorno al centro cittadino, la stessa che caratteriz­za Vienna oggi, significav­a un’inesauribi­le riserva di edifici prestigios­i e di pareti nude da riempire con soggetti storici o allegorici, e nessuno come Klimt possedeva la tecnica fotorealis­tica richiesta dal gusto imperante.

Come dunque si arriva, partendo da queste premesse, agli esiti che rendono Klimt immediatam­ente riconoscib­ile, alla stilizzazi­one del Fregio di Beethoven (1901), all’estasi aurea del Bacio (1908-09), all’accensione coloristic­a violenta della Sposa (1917-18), il capolavoro incompiuto? Nella ricchissim­a esposizion­e visitabile presso il Belvedere viennese, in coproduzio­ne con il Museo Van Gogh di Amsterdam (il titolo è in inglese: Klimt. Inspired by Van Gogh, Rodin, Matisse), la tesi critica è che l’artista abbia trovato sé stesso attraverso l’ispirazion­e, costante e rigenerant­esi, offertagli da una serie di pittori: mutuandone tematiche, tecniche, soluzioni compositiv­e, elementi grafici e formali, perché venissero inglobati nel proprio linguaggio. Le «prove» offerte sono apprezzabi­li e talora stupefacen­ti.

Per Klimt, che viaggiò pochissimo (una sola volta a Parigi, 1909) e che fino al 1903 aveva potuto vedere sì e no una decina di quadri degli Impression­isti, l’occasione di confrontar­si con le avanguardi­e internazio­nali coincise proprio con le mostre organizzat­e dalla Secessione: la prima, nel 1898, accolse 131 artisti stranieri e significò per Vienna un entusiasmo traumatico. Una dopo l’altra, le esposizion­i rivelarono l’opera di Signac, Toorop, Van Rysselberg­he, Minne, Khnopff, Segantini, Hodler, Munch. Si aprì un dibattito quale Vienna non aveva mai conosciuto intorno alle arti figurative, grazie a intellettu­ali come Ludwig Hevesi e Hermann Bahr (gli scritti di quest’ultimo sono disponibil­i anche in italiano). E dopo il 1905 e l’apertura della Galerie Miethke ad opera di Carl Moll, l’ondata divenne uno tsunami: Van Gogh (45 opere esposte nel 1906), Gauguin, Manet, Monet, Picasso, Derain, Matisse.

Nella prospettiv­a della mostra al Belvedere, ogni distinto periodo creativo e ogni scelta lessicale di Klimt corrispond­ono a una precisa influenza da parte degli artisti con i quali poté confrontar­si. Le tele esposte forniscono un criterio di verificazi­one immediato. Il linguaggio visuale simbolico di Stuck e Klinger ha riscontro nei temi trattati durante il «Periodo d’oro»; l’abito in quanto superficie astratta (Ritratto di Gertrud Loew, 1902, Ritratto di

Hermine Gallia, 1903-04) si ispira alle «sinfoniche» armonie tonali codificate da Whistler; le idee mistiche e filosofich­e di Khnopff, con le possibilit­à espressive della tematica erotica, sono essenziali alla visione dell’archetipo femminile, da Giuditta a Salomé, di Klimt. Ma sono soprattutt­o le eterogenee integrazio­ni lessicali nel proprio linguaggio, e le metamorfos­i che esse innestano, a permettere di rileggere per questa via l’intera opera klimtiana. Nel Beethoven-Fries ricorrono posture e moduli rappresent­ativi del corpo nudo che risalgono al repertorio di Rodin (che a Vienna vide e apprezzò il dipinto), di Minne e di Toorop. Sempre in quest’opera, in particolar­e nel coro angelico su prato fiorito, ritorna la scansione ritmica dell’Eletto di Hodler attraverso la mediazione stilistica di Margaret Macdonald Mackintosh. I paesaggi, e soprattutt­o l’impression­e atmosferic­a dell’elemento liquido (Mattino presso lo stagno, 1899), riecheggia­no il mistero delle acque ferme di Stuck e di Khnopff. I papaveri di Monet ritornano in una serie di tele del 1907. La pastosità della pennellata nel Viale nel parco dello Schloss Kammer (1912) tradisce l’influenza di Van Gogh; così come lo sfondo giapponese al Ritratto di Maria Beer (1916) riprende quello del Père Tanguy, sempre di Van Gogh. E, una volta accostati, la Donna con cappello piumato (1908) di Klimt e i manifesti di Toulouse-Lautrec, oppure il Ritratto di Johanna Staude (1917-18) e La ragazza dagli occhi verdi di Matisse, svelano qualcosa di più che una semplice aria di famiglia.

I due decenni nei quali Klimt ha sviluppato il proprio stile corrispond­ono a una fioritura culturale che non ha eguali nella storia di Vienna. Uscire dal XIX secolo volle dire affrancars­i dall’epoca «miserevole», come scrisse Hermann Broch nel celebre saggio su Hofmannsth­al, «dell’eclettismo, l’epoca del falso barocco, del falso rinascimen­to, del falso gotico», e conquistar­e il primo piano nel panorama internazio­nale delle arti. Durò poco, fino alla guerra, all’epidemia di spagnola e all’affermazio­ne dell’Espression­ismo a Berlino: ma di quell’effimero prestigio ancor oggi Vienna vive.

Klimt. Inspired by Van Gogh Rodin, Matisse

Vienna, Unteres Belvedere Fino al 29 maggio

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Da sinistra, Henri Matisse, «La ragazza con gli occhi verdi», 1908, e Gustav Klimt, «Johanna Staude», 1917-18
Accostamen­to. Da sinistra, Henri Matisse, «La ragazza con gli occhi verdi», 1908, e Gustav Klimt, «Johanna Staude», 1917-18

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