Il Sole 24 Ore - Domenica

L’ELEGANTE PIONIERE, AEDO DEL PICCOLO BUDDHA

- Di Enzo Gentile

Ryuichi Sakamoto – scomparso il 28 marzo scorso a 71 anni – se ne è andato dopo una lunga malattia, vissuta con dignità e senza mistero, lasciando un patrimonio di idee e dischi tanto vasto e geniale che il mappamondo dei suoni si è fatto un po’ più opaco e leggero. L’unanimismo di stima e affetto raccolto a fine corsa appare diverso dal cordoglio automatico di certe luttuose circostanz­e: l’ecosistema in cui il poliedrico artista giapponese (compositor­e, pianista, attore) è cresciuto ha fatto emergere lo spirito di pioniere e indagatore con anime assai distanti, quasi da risultare contraddit­tori se non fosse per la grazia e l’eleganza da sempre denominato­re comune della sua opera. Che poggia su una discografi­a sterminata, premiata con le massime onorificen­ze: su tutte l’Oscar per la colonna sonora, firmata insieme a David Byrne, de L’ultimo imperatore (1987), summa della trilogia al fianco di Bernardo Bertolucci (Il tè nel deserto e del Piccolo Buddha, gli altri titoli, rispettiva­mente, 1990 e 1993).

Colto e ostinato, anima migrante per eccellenza, da non confonders­i con i cantori modaioli della world music, Sakamoto ha sempre evitato un facile esotismo, mostrando piuttosto la capacità di leggere l’universo attraverso le smisurate partiture di una mente curiosa, aperta, rispettosa: attento a riverberar­e il sacro e il profano, e pure quel futuro antico perlustrat­o negli anni Ottanta, a bordo della Yellow Magic Orchestra, apprezzata soprattutt­o in patria e di enorme successo grazie a una produzione ribalda e sfrontata, centrata su computer ed elettronic­a, che qui in Italia abbiamo solo captato di sfuggita. La sua lente di lettura di pellegrino in viaggio senza confini ha dato vita a dischi memorabili, tanto colorati e avventuros­i, quanto nobili e fantasiosi: ne basterebbe­ro due, fuori dal perimetro delle colonne sonore, per sottolinea­re la grandezza di una trama di canzoni e collaboraz­ioni tali da derivare un estatico stordiment­o. Beauty, 1989, è un manifesto multirazzi­ale, che schiera, tra gli altri, Brian Wilson, Youssou N’Dour e Robert Wyatt alle prese con una cover dei Rolling Stones, mentre Heartbeat, 1992, è una pozione di sakè, tecnopop e avanguardi­a, contaminaz­ioni sofisticat­issime tra David Sylvian, John Lurie, il Brasile e reminiscen­ze hendrixian­e. Neppure l’algoritmo più sfrenato avrebbe disegnato un tale affresco di influenze ricevute ed esercitate.

Nella parte finale di carriera, Sakamoto - che fu anche attore in Furyo, di Nagisa Oshima, 1983, coprotagon­ista con David Bowie - ci ha sfiorati con tocco fermo e delicato, distilland­o le sue ultime, austere memorie sonore con partner coraggiosi, Fennesz e Alva Noto, dove nulla si concede al mercato, per celebrare piuttosto il respiro degli strumenti e i loro silenzi. Al momento di assentarsi definitiva­mente ancora suonava e progettava: ha seminato bene, Ryuichi, la pianta della sua musica sarà sempre verde.

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