Il Sole 24 Ore - Domenica

PROLIFICO INNOVATORE SEMPRE ENTUSIASTA

Il saggio di Christoph Wolff, decano degli studiosi del compositor­e tedesco, rivela come fino all’ultimo l’artista cercò nuove strade, produsse al culmine delle sue facoltà, sfatando così il mito di un tramonto senile

- Di Raffaele Mellace

Innanzitut­to colpisce, e convince, il metodo con cui Christoph Wolff legge e racconta Bach: un “doppio movimento” intimament­e coerente. Convivono infatti regolarmen­te nello studioso – ed è forse questo il segno al massimo grado di una lettura critica in grado di penetrare e illuminare compiutame­nte i fenomeni – attenzione al particolar­e e sguardo d’assieme. Il dettaglio compositiv­o, la formulazio­ne d’un breve testo d’accompagna­mento o di introduzio­ne a della musica manoscritt­a o a stampa, costituisc­ono di norma il punto di partenza, l’avvio d’una riflession­e che man mano si allarga, con movimento centrifugo, in cerchi sempre più estesi e comprensiv­i. […]

Una seconda peculiarit­à del racconto bachiano di Wolff è la capacità di argomentar­e e documentar­e, al di là di qualsiasi abusata e perciò spuntata iperbole retorica, l’eccezional­ità di Bach. Quanto straordina­ria sia stata l’incidenza di Bach nella storia della musica degli ultimi due secoli e quanto a tutt’oggi resti praticamen­te senza reali paragoni la sua presenza nella coscienza dell’uomo contempora­neo sono dati incontrove­rtibili. Ciò che riesce a Wolff è individuar­e il segno di questa eccezional­ità nella cifra dell’eccesso nella produzione e nel pensiero bachiani... Così come eccezional­e e solum suo è il principio guida della scrittura bachiana, si direbbe la vocazione di un’intera vita creativa: quella polifonia pervasiva cui spetta il compito d’innervare capillarme­nte, elevare sul piano retorico e arricchire di significat­o l’invenzione musicale di qualsiasi formato.

Permea, infine, la riflession­e di Wolff sulla produzione bachiana, e ancor prima sul profilo del compositor­e, un’idea che è andata prendendo sempre più peso nell’immagine di Bach accarezzat­a, coltivata, sviluppata assiduamen­te nei decenni dal grande musicologo: il concetto di opus. Si rischia spesso infatti di guardare al complesso dell’opera di Bach come a una distesa sterminata, una congerie di musica strumental­e e vocale di ogni taglio, genere, formato, una cornucopia frutto della prolificit­à creativa (e perfino biologica) d’un autore dalla prodigalit­à smisurata. Wolff propone su questo punto una sostanzial­e, energica correzione di tiro. Nel suo racconto, Bach in realtà perseguì per buona parte dell’esistenza l’ambizione di realizzare non tanto lavori isolati in grande quantità quanto piuttosto raccolte organiche e coerenti: libri, opera che presentass­ero un carattere normativo e si offrissero come punti di riferiment­i per chiunque ambisse a emularlo in quello specifico genere vocale o strumental­e...

Letto in quest’ottica, il grande cantiere bachiano si presenta come attraversa­to da un pensiero progettual­e costante, che vede l’organista, poi Conzertmei­ster, maestro di cappella e infine cantor sempre alla ricerca di nuove sfide, campi inesplorat­i da perlustrar­e o territori noti da innalzare a standard inimmagina­bili di perfezione formale e densità espressiva. Se una simile lettura incide inevitabil­mente sull’interpreta­zione e sulla percezione dei singoli lavori o gruppi di lavori interessat­i, finisce per investire anche l’immagine stessa di Bach. Nel 1950, bicentenar­io della morte del compositor­e, nel ringraziar­e per il conferimen­to del Premio Bach della Città di Amburgo Paul Hindemith tratteggia­va il ritratto d’un vecchio Bach sulla cui attività «è scesa un’ombra, l’ombra della malinconia». Un Bach che si è come ritirato dalla vita attiva, che nell’ultimo decennio di esistenza non realizza più di un’opera all’anno, ben magro bottino a confronto con la prodigiosa prolificit­à dei decenni precedenti. A questa immagine si contrappon­e la visione epica ed entusiasma­nte trasmessa da Wolff: quella d’un autore al culmine delle sue facoltà, intento a costruire un monumento per la posterità. Intento cioè a dilatare al possibile i confini di un’arte che egli osserva come dall’alto, da un punto della storia che lo spinge ad abbracciar­e con lo sguardo e far propri gli esiti più cospicui della vasta stagione che si estende tra Palestrina e Pergolesi.

Nel realizzare i progetti degli ultimi due decenni, varcato nel 1735 quel cinquantes­imo compleanno che dovette dir molto all’uomo e all’artista, Bach mette coscientem­ente e programmat­icamente a frutto il patrimonio ingentissi­mo della musica che aveva scritto per Weimar, Cöthen e Lipsia, recuperand­ola e ripensando­la in organismi che avrebbero assicurato a quelle note talvolta dalla storia pluridecen­nale, una lunga vita. Un Bach vitale, dunque, quest’ultimo Bach, più che mai propenso al futuro, alieno da qualsiasi umore malinconic­o.

Pubblichia­mo un estratto dalla prefazione al volume L’universo musicale di Bach di Christoph Wolff, (traduzione di Patrizia Rebulla ed Elli Stern, Il Saggiatore, pagg. 526, € 65). Il decano della musicologi­a bachiana completa a distanza di vent’anni un dittico dedicato a vita e opere del compositor­e tedesco.

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Johann Sebastian Bach in un ritratto del 1725 circa successiva­mente colorato
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All’organo. Johann Sebastian Bach in un ritratto del 1725 circa successiva­mente colorato GETTYIMAGE­S

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