PROLIFICO INNOVATORE SEMPRE ENTUSIASTA
Il saggio di Christoph Wolff, decano degli studiosi del compositore tedesco, rivela come fino all’ultimo l’artista cercò nuove strade, produsse al culmine delle sue facoltà, sfatando così il mito di un tramonto senile
Innanzitutto colpisce, e convince, il metodo con cui Christoph Wolff legge e racconta Bach: un “doppio movimento” intimamente coerente. Convivono infatti regolarmente nello studioso – ed è forse questo il segno al massimo grado di una lettura critica in grado di penetrare e illuminare compiutamente i fenomeni – attenzione al particolare e sguardo d’assieme. Il dettaglio compositivo, la formulazione d’un breve testo d’accompagnamento o di introduzione a della musica manoscritta o a stampa, costituiscono di norma il punto di partenza, l’avvio d’una riflessione che man mano si allarga, con movimento centrifugo, in cerchi sempre più estesi e comprensivi. […]
Una seconda peculiarità del racconto bachiano di Wolff è la capacità di argomentare e documentare, al di là di qualsiasi abusata e perciò spuntata iperbole retorica, l’eccezionalità di Bach. Quanto straordinaria sia stata l’incidenza di Bach nella storia della musica degli ultimi due secoli e quanto a tutt’oggi resti praticamente senza reali paragoni la sua presenza nella coscienza dell’uomo contemporaneo sono dati incontrovertibili. Ciò che riesce a Wolff è individuare il segno di questa eccezionalità nella cifra dell’eccesso nella produzione e nel pensiero bachiani... Così come eccezionale e solum suo è il principio guida della scrittura bachiana, si direbbe la vocazione di un’intera vita creativa: quella polifonia pervasiva cui spetta il compito d’innervare capillarmente, elevare sul piano retorico e arricchire di significato l’invenzione musicale di qualsiasi formato.
Permea, infine, la riflessione di Wolff sulla produzione bachiana, e ancor prima sul profilo del compositore, un’idea che è andata prendendo sempre più peso nell’immagine di Bach accarezzata, coltivata, sviluppata assiduamente nei decenni dal grande musicologo: il concetto di opus. Si rischia spesso infatti di guardare al complesso dell’opera di Bach come a una distesa sterminata, una congerie di musica strumentale e vocale di ogni taglio, genere, formato, una cornucopia frutto della prolificità creativa (e perfino biologica) d’un autore dalla prodigalità smisurata. Wolff propone su questo punto una sostanziale, energica correzione di tiro. Nel suo racconto, Bach in realtà perseguì per buona parte dell’esistenza l’ambizione di realizzare non tanto lavori isolati in grande quantità quanto piuttosto raccolte organiche e coerenti: libri, opera che presentassero un carattere normativo e si offrissero come punti di riferimenti per chiunque ambisse a emularlo in quello specifico genere vocale o strumentale...
Letto in quest’ottica, il grande cantiere bachiano si presenta come attraversato da un pensiero progettuale costante, che vede l’organista, poi Conzertmeister, maestro di cappella e infine cantor sempre alla ricerca di nuove sfide, campi inesplorati da perlustrare o territori noti da innalzare a standard inimmaginabili di perfezione formale e densità espressiva. Se una simile lettura incide inevitabilmente sull’interpretazione e sulla percezione dei singoli lavori o gruppi di lavori interessati, finisce per investire anche l’immagine stessa di Bach. Nel 1950, bicentenario della morte del compositore, nel ringraziare per il conferimento del Premio Bach della Città di Amburgo Paul Hindemith tratteggiava il ritratto d’un vecchio Bach sulla cui attività «è scesa un’ombra, l’ombra della malinconia». Un Bach che si è come ritirato dalla vita attiva, che nell’ultimo decennio di esistenza non realizza più di un’opera all’anno, ben magro bottino a confronto con la prodigiosa prolificità dei decenni precedenti. A questa immagine si contrappone la visione epica ed entusiasmante trasmessa da Wolff: quella d’un autore al culmine delle sue facoltà, intento a costruire un monumento per la posterità. Intento cioè a dilatare al possibile i confini di un’arte che egli osserva come dall’alto, da un punto della storia che lo spinge ad abbracciare con lo sguardo e far propri gli esiti più cospicui della vasta stagione che si estende tra Palestrina e Pergolesi.
Nel realizzare i progetti degli ultimi due decenni, varcato nel 1735 quel cinquantesimo compleanno che dovette dir molto all’uomo e all’artista, Bach mette coscientemente e programmaticamente a frutto il patrimonio ingentissimo della musica che aveva scritto per Weimar, Cöthen e Lipsia, recuperandola e ripensandola in organismi che avrebbero assicurato a quelle note talvolta dalla storia pluridecennale, una lunga vita. Un Bach vitale, dunque, quest’ultimo Bach, più che mai propenso al futuro, alieno da qualsiasi umore malinconico.
Pubblichiamo un estratto dalla prefazione al volume L’universo musicale di Bach di Christoph Wolff, (traduzione di Patrizia Rebulla ed Elli Stern, Il Saggiatore, pagg. 526, € 65). Il decano della musicologia bachiana completa a distanza di vent’anni un dittico dedicato a vita e opere del compositore tedesco.