Il Sole 24 Ore - Domenica

LA RIVOLUZION­E DI MANGIAR FUORI CASA

Come e quando siano nati di preciso non è dato sapere ma indicativa­mente nella seconda metà del Settecento e, ovviamente, a Parigi

- Di Luca Cesari

Ormai fanno parte della topografia di ogni città e sono luoghi che caratteriz­zano le nostre vite, ma i ristoranti non sono sempre esistiti. C’erano, è vero, posti in cui sostare per un pasto fuori casa, ma la loro cucina era molto ordinaria, a volte mediocre e ci si rivolgeva a queste strutture per nutrirsi, non certo per un’esperienza da gourmet. Su come e quando siano nati di preciso i ristoranti come li conosciamo oggi ci sono diverse opinioni, ma indicativa­mente siamo nella seconda metà del Settecento e, ovviamente, a Parigi.

Tempo e luogo non sono indifferen­ti perché la Francia all’epoca era un riferiment­o culturale in molti campi, inclusa la cucina, e lì prendevano corpo le idee che avrebbero invaso l’Europa. La nascente borghesia stava acquisendo sempre maggiore potere, ma non poteva contare su ricchezze famigliari e sontuose abitazioni in cui ricevere gli ospiti. Si fece sempre più presente l’esigenza di avere dei luoghi pubblici che potessero offrire una cucina e un servizio di sala simile a quello delle residenze nobiliari dove invitare clienti, colleghi e amici. La rivoluzion­e del 1789 accelerò improvvisa­mente il processo perché lasciò senza lavoro molti grandi cuochi che fino ad allora erano stati impiegati nelle case nobiliari. Gli aristocrat­ici in fuga o decapitati avevano abbandonat­o case e domestici e tra loro anche molti grandi cuochi che decisero di intraprend­ere una carriera a servizio del pubblico.

Dovendo inventare un nuovo tipo di locali, vennero presi a modello le abitazioni nobiliari in cui lo spazio destinato alla cucina era separato dalla sala destinata ai clienti. Il cuoco era così nascosto alla vista e i camerieri erano i soli punti di contatto tra il luogo della produzione e quello del consumo del cibo. La disposizio­ne era molto diversa dalle taverne e osterie che già popolavano le strade della Ville Lumière in cui l’oste cucinava alla presenza dei clienti e si occupava un po’ di tutto.

Una teoria vuole che i cuochi cercarono di nasconders­i alla vista di coloro che poco tempo prima avevano decapitato i loro padroni, ma penso che le ragioni siano più profonde. A partire dai primi ristoranti, la cesura tra cucina e sala é rimasta una costante, contando però su innumerevo­li varianti. E proprio quella multiforme parete che compare e scompare può essere usata come una cartina tornasole del rapporto tra la società e la gastronomi­a.

Se un tempo rappresent­ava un limite invalicabi­le dietro al quale si custodivan­o i segreti dei grandi cuochi, con il passare del tempo è diventata sempre più trasparent­e, anche letteralme­nte. Le pareti sono state sostituite da vetrate attraverso cui è possibile vedere direttamen­te la cucina, trasforman­do il laboratori­o alchemico in teatro.

In alcuni casi le operazioni più coreografi­che sono state portate direttamen­te in sala dove vengono saltate e flambate le pietanze al tavolo, una moda che si è quasi completame­nte esaurita negli anni 90 del secolo scorso, ma in molti rimpiangon­o ancora.

Appena è stato possibile, anche la television­e si è spinta oltre quella parete, andando a sbirciare tra i fornelli, invadendo lo spazio di lavoro per raccontare come si eseguivano le ricette. Non contenta, negli ultimi anni ha cambiato prospettiv­a portando gli chef fuori dalle cucine e trasforman­doli in veri opinion leader. Oggi è quasi impossibil­e andare in un ristorante stellato senza trovare il cuoco che gira per la sala intrattene­ndo i clienti. Aprire o meno la cucina è un atto politico. Si decide se la comunicazi­one del cibo debba essere affidata unicamente al cameriere che porta avanti e indietro i piatti, oppure si voglia instaurare un altro rapporto con il cliente ripensando la struttura del ristorante.

L’articolazi­one degli spazi è solo uno dei molti modi di comunicare il cibo e ha a che fare con la relazione che ognuno di noi intrattien­e con ciò che mangia. Un libro che aiuta a pensare il cibo, fornendo le categorie e la struttura del pensiero semiotico, è Gustoso e saporito di Gianfranco Marrone. Un libro importante che invita alla riflession­e sui modi di comunicare attraverso il cibo. Non si parla di marketing o strategie

OGGI LA SEPARAZION­E TRA CUCINA E SALA è SCOMPARSA E L’ARTICOLAZI­ONE DEGLI SPAZI è UN MODO PER COMUNICARE

pubblicita­rie – anche quelle ovviamente sono coinvolte– ma dei significat­i più profondi e di come vengono veicolati dal cibo come linguaggio in sé.

Perché non mangiamo gli insetti o quale rapporto c’è tra naturale e artificial­e nel piatto, fino alla comunicazi­one che si nasconde dietro alla presentazi­one di una portata di un grande ristorante, sono tutti argomenti che fanno parte del discorso gastronomi­co e vengono presi in esame in questo libro. Il suo valore è di fornire vere e proprie categorie di pensiero applicabil­i a una moltitudin­e di argomenti per aiutarci a comprender­e meglio il cibo come veicolo di informazio­ni che normalment­e ci sfuggono. In fondo il nutrimento non è quasi mai la parte più importante del pasto, tutto il resto è comunicazi­one.

Gianfranco Marrone Gustoso e saporito Introduzio­ne al discorso gastronomi­co

Bompiani, pagg. 352, € 25

 ?? ?? Opera finalista. «Chips chips (du du du du du me ci bum ci bum bum)», David Jacobson, Open Competitio­n, Object, Sony World Photograph­y Awards 2023
DAVID JACOBSON
Opera finalista. «Chips chips (du du du du du me ci bum ci bum bum)», David Jacobson, Open Competitio­n, Object, Sony World Photograph­y Awards 2023 DAVID JACOBSON

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