NEL LABIRINTO DEI SOGNI, COSCIENTI DELL’INCONSCIO
Per cercare l’essenza del mondo onirico, Vittorio Lingiardi attraversa tre porte: divinazioni, interpretazioni e neurovisioni. Ma, poi, fatalmente, si torna sempre al misterioso dissolversi mattutino
entre ascolto alla radio Dalla e De Gregori che cantano Cosa sarà, questo strano coraggio, paura che ci prende, che ci porta ad ascoltare la notte che scende?, penso non ci sia incipit migliore per rispondere alla domanda che non mi ero ancora posto: perché ho scritto questo libro? Perché questo tour de force… leggere e scrivere di sogni, le epoche, le diverse tradizioni, perché tenere insieme mondi così lontani, le estasi junghiane, le mappe neurologiche, le spiegazioni cognitiviste? Quale desiderio mi ha dato lo «strano coraggio» per questa avventura? Perché il bisogno di ascoltare la «notte che scende»? Da analista, ma anche da amico, di sogni ne ho ascoltati davvero tanti, scoprendo ogni volta che ciascuno era dotato di una sua forza aurorale. Anche i sogni più tipici (essere inseguiti, cadere, perdere i denti) sono reinventati dalla soggettività del sognatore. Dunque una prima risposta potrebbe essere che il mio libro è un omaggio alla varietà dell’onirico che, dice Novalis, «ci istruisce in maniera singolare sulla facilità che ha la nostra anima di penetrare dentro ogni oggetto». Novalis dice anche che il sogno è «significativo come la poesia», «irregolare e perfettamente libero». Una seconda risposta è che ho scritto questo libro perché credo che la mente, fra tutti quei neuroni, abbia una base poetica e visiva. Anche il cinema, Fellini lo diceva sempre, è una forma di sogno. Metamorfosi, condensazioni, simbolizzazioni, salti temporali, infrazioni dei nessi causali: nei film, nelle poesie e nei sogni sono di casa. «Sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno», dice Tarkovskij ai suoi spettatori.
Al tempo della mia analisi tenevo un quaderno dei sogni. L’ho cercato e ritrovato in occasione della scrittura di questo libro. Rileggerlo dopo tanti anni fa un certo effetto: un diario privato di cui non sei responsabile, la radiografia nebbiosa di un passato quasi senza tempo. Mario Trevi, maestro junghiano coi piedi per terra, diceva: «I sogni non possono essere ridotti alla soddisfazione fantasmatica di un desiderio rimosso legato alle pulsioni», come vorrebbe Freud. «Glielo dice un uomo che ha 87 anni e continua a sognare. E, proprio in questa età, quando è difficile trovare soddisfazione ai desideri pulsionali, fa i sogni più belli».
Chi siamo mentre sogniamo? A cosa servono i sogni? Di loro sappiamo poco, svaniscono. Persino Freud, che ha dato tutto sé stesso per spiegare la vita onirica, a un certo punto della Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni), deve arrendersi: «Ogni sogno – scrive – ha un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto». Questo ignoto è la parte migliore del sogno ed è il motivo per cui ho intitolato il mio libro L’ombelico del sogno. Sembra Jovanotti – e un po’ lo è, sono anch’io «un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno» – ma, come ho appena detto, è Freud. Dal centro di tale ombelico, un mistero sospeso tra mente e cervello, ho iniziato il mio viaggio onirico, convinto che il sogno sia un labirinto borgesiano che contiene tutti i racconti. Per arrivarci bisogna attraversare almeno tre porte: le divinazioni, cioè i sogni per gli antichi; le interpretazioni, cioè i sogni per gli psicoanalisti; le neurovisioni, cioè i sogni per i neuroscienziati. Le tre porte – messaggi divini, segreti inconsci, eventi neurali – si aprono l’una dentro l’altra. Perché, come ci ricorda Pasolini all’inizio del Fiore delle mille e una notte, «la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni». Inevitabilmente la mia esplorazione dentro l’enigma onirico ha un risvolto accademico: riguardo ai sogni ci sono cose che dovete sapere. Il mio libro è anche un invito paradossale a essere coscienti dell’inconscio.
Ogni sentiero intrapreso mi ha dato la sensazione di raggiungere una meta, ma poi mi ritrovavo sempre alla casella di partenza, incapace di afferrare la sostanza dei sogni. Rimane una successione di immagini, una Series of dreams, come canta Bob Dylan. Di fronte alla loro imprendibilità, a quel misterioso dissolversi mattutino, sono colto da una specie di resa cognitiva. E questa cosa mi assilla e mi piace: non capire, sentire senza possedere. I sogni, così ingovernabili (con buona pace dei cosiddetti “sognatori lucidi”), mi trasmettono un’idea di libertà. Quando ti svegli ne parli con te stesso, puoi farci i conti, ma anche lasciarli andare. S’intitola Libertà una poesia di Cecília Meireles che dice: «Ma i sognatori vanno avanti / lanciando i loro aquiloni, / morendo nei loro incendi […] / in queste impalcature dei costruttori di Babele».
Oltre alla libertà e al rischio, i sogni trasportano anche una confusione semantica: la stessa parola per un’avventura del sonno e per un desiderio del giorno. Quello che fa dire a Martin Luther King «I have a dream», a John Lennon «you can say I am a dreamer, but I am not the only one», a Papa Bergoglio «i sogni sono importanti, tengono il nostro sguardo largo». Ma soprattutto fa dire a Emily Dickinson che «per fare un prato occorrono trifoglio e ape, / un trifoglio, e un’ape, / e una mente che sogna. / La mente che sogna farà anche da sé, / se le api son poche».
Sogno è una parola che fonda la psicoanalisi ma ci fa uscire da lei, a confrontarci col mondo, la politica e la religione. Del sogno mi piace che è un pensiero che non sa di pensare, la forma più inclusiva di un lavoro psicologico che si realizza durante una conversazione tra la personalità e la memoria, il mito e i neuroni. Tiepidi rifugi o territori di conquista dell’incubo post-traumatico, i sogni ci espongono ogni notte e ogni giorno all’enigma e al valore della nostra interiorità. Ci riportano i morti e gli amori perduti, elaborano i dolori, trovano persino soluzioni a problemi difficili. Navigano le onde indaffarate degli elettroencefalogrammi come visioni al tempo stesso sacre, mentali, sinaptiche.