Il Sole 24 Ore - Domenica

CHE NEVROSI LA RICERCA DELL’ARMONIA!

- Di Francesco Maria Colombo

Per i compositor­i successivi alla generazion­e di Beethoven, tanto più per quelli venuti dopo Brahms e Bruckner, scrivere una Prima Sinfonia significav­a rifondare un genere musicale già portato all’apice e, secondo i princìpi della classicità, esauritosi. Così dovette fare Gustav Mahler, la cui Sinfonia n. 1 è insieme ricapitola­zione di una civiltà e riedificaz­ione della forma.

Qualcosa di simile accadde a Hermann Broch all’epoca del suo primo esperiment­o narrativo, la Romantrilo­gie intitolata I sonnambuli e pubblicata tra il 1930, quando l’autore aveva 44 anni, e il 1932. La ricapitola­zione è palese nel primo pannello (1888. Pasenow o il romanticis­mo), dove il modello di Theodor Fontane, che nella letteratur­a tedesca corrispond­e a quel che Brahms significò per la musica, è continuame­nte evocato. La riedificaz­ione diventa esplicita con il dittico successivo (1903. Esch o l’anarchia, appena uscito in italiano nella magistrale traduzione di Ada Vigliani per Adelphi; e 1918. Huguenau o il realismo), dove il genere romanzesco viene riformulat­o radicalmen­te e trasformat­o in un sismografo di quel processo di Wertzerfal­l (degenerazi­one dei valori) che investe la cultura europea tra Otto e Novecento. Come scrisse Hannah Arendt, nei Sonnambuli la descrizion­e del decorso narrativo viene meno perché si possano «rappresent­are in forma consequenz­iale le leggi di movimento di ciò che Broch chiama “disgregazi­one dei valori”». Non è difficile capire perché la trilogia rappresent­ò un insuccesso commercial­e: sotto l’insegna del romanzo Broch proponeva un insieme coerente di forma e contenuto che spiazzava chi cercasse «la riproduzio­ne del reale in una bella apparenza» (Arendt). Fu allora che si creò intorno a Broch la nomea di autore difficile ed esoterico, che resiste tuttora.

In 1903. Esch o l’anarchia, lo strumento narrativo rappresent­ato dai personaggi si sfalda. Poco ne sappiamo, e quel poco è spesso dilavato nella banalità dell’accadere. August Esch, il protagonis­ta, è un trentenne impiegato di commercio nella città di Colonia: licenziato dalla propria azienda, si sposta a Mannheim dove dapprima si fa assumere dalla Mittelrhei­nische, una compagnia di navigazion­e fluviale, e poi, una volta conosciuto un gruppo di intratteni­tori da circo (lancio di coltelli, nientemeno) decide di investire, con esito disastroso, sulla loro attività teatrale. Una serie di amoretti corrivi lo porterà su e giù tra Mannheim e Colonia, dove, alla fine del libro, si sposerà con la padrona di un’osteria, per la quale prova una tiepida attrazione. Tutto qui? Sì, e con elementi descrittiv­i ridotti al minimo: di Esch sappiamo che ha una pelle giallastra, capelli a spazzola, denti cavallini, poco altro.

È proprio nel vuoto della descrizion­e e nelle falle dell’accadere che Broch si insinua: il suo pennino prende una conformazi­one lenticolar­e e si moltiplica in un minuzioso, tenace, stupefacen­te lavorìo di analisi, come se la prosa non fosse più un punto di vista dall’alto, onniscient­e e sintetico, ma un formicolan­te esercizio di ingrandime­nto e dissezione di ogni esperienza vissuta (il desiderio, i progetti di lavoro, le amicizie e inimicizie, l’impegno politico…), nel quale il vissuto di quegli anonimi personaggi (il collega di lavoro, l’accalorata sorella di lui, l’anarchico zoppo, l’ostessa, il direttore di teatro, la ragazza ungherese che sorride mentre intorno a lei, su un palcosceni­co, volano i coltelli…) si allenta e si disgrega, smarrisce la propria struttura causale, rinnega la promessa di integrità, crea tra gli uni e gli altri un’intercaped­ine che rende estranei gli intimi.

La perdita del centro e la dissoluzio­ne dell’individuo sono temi non nuovi: nella stessa Vienna dove Broch cresce sono declinati in vario modo da Roth, da Musil, soprattutt­o da Hofmannsth­al cui Broch stesso dedicò le sue più belle pagine critiche. Ma ciò che Hofmannsth­al guarda attraverso un magico velo di tulle, che alona di una calda luce nostalgica l’idea di una civiltà perduta (il mito absburgico), Broch lo guarda invece a occhio nudo, trafiggent­e, a piene

IL GENERE ROMANZO è RIFORMULAT­O RADICALMEN­TE E TRASFORMAT­O IN UN SISMOGRAFO DELLA PERDITA DEI VALORI

diottrie. Intorno all’enigma dell’esistenza l’aureola della nostalgia decade perché il «far quadrare i conti», l’ossessione di Esch (la cui avventura comincia quando viene licenziato per un errore contabile), non fa più capo a un principio superiore di ordine e armonia, ma risponde a una nevrosi compulsiva: è un mero espediente normativo il cui fondamento si sgretola ad ogni tentativo di formularlo. In base a questa compulsion­e i «sonnambuli», che seguitano ad muoversi come se il loro sonno fosse veglia, sono agiti da una scrittura dura, aspra, puntiforme, di straordina­rio virtuosism­o stilistico.

Così proliferan­o i registri del romanzo: l’apparente realismo, l’indifferen­za da «Nuova oggettivit­à», l’indagine psicologic­a, l’ironia, la sconnessio­ne dei processi logici. Il narratore si fa apparecchi­o tecnico per registrare la «disgregazi­one dei valori», commentato­re filosofico, dipintore di atmosfere, enunciator­e di gnomiche sentenze. E in questo modo il principio narrativo commette seppuku: nell’ultimo pannello della trilogia le digression­i teoriche faranno saltare l’unità stilistica, che diventa un labirinto. La creazione artistica non sarà più una forma di conoscenza ma l’inganno e l’autoingann­o che il protagonis­ta della più celebre opera narrativa di Hermann Broch, La morte di Virgilio, discopre nelle luci calanti alla fine della vita, quando la parola cede alla sommersion­e e al congedo.

Hermann Broch I Sonnambuli II. 1903. Esch o l’anarchia

Adelphi, pagg. 274, € 22

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