CHE NEVROSI LA RICERCA DELL’ARMONIA!
Per i compositori successivi alla generazione di Beethoven, tanto più per quelli venuti dopo Brahms e Bruckner, scrivere una Prima Sinfonia significava rifondare un genere musicale già portato all’apice e, secondo i princìpi della classicità, esauritosi. Così dovette fare Gustav Mahler, la cui Sinfonia n. 1 è insieme ricapitolazione di una civiltà e riedificazione della forma.
Qualcosa di simile accadde a Hermann Broch all’epoca del suo primo esperimento narrativo, la Romantrilogie intitolata I sonnambuli e pubblicata tra il 1930, quando l’autore aveva 44 anni, e il 1932. La ricapitolazione è palese nel primo pannello (1888. Pasenow o il romanticismo), dove il modello di Theodor Fontane, che nella letteratura tedesca corrisponde a quel che Brahms significò per la musica, è continuamente evocato. La riedificazione diventa esplicita con il dittico successivo (1903. Esch o l’anarchia, appena uscito in italiano nella magistrale traduzione di Ada Vigliani per Adelphi; e 1918. Huguenau o il realismo), dove il genere romanzesco viene riformulato radicalmente e trasformato in un sismografo di quel processo di Wertzerfall (degenerazione dei valori) che investe la cultura europea tra Otto e Novecento. Come scrisse Hannah Arendt, nei Sonnambuli la descrizione del decorso narrativo viene meno perché si possano «rappresentare in forma consequenziale le leggi di movimento di ciò che Broch chiama “disgregazione dei valori”». Non è difficile capire perché la trilogia rappresentò un insuccesso commerciale: sotto l’insegna del romanzo Broch proponeva un insieme coerente di forma e contenuto che spiazzava chi cercasse «la riproduzione del reale in una bella apparenza» (Arendt). Fu allora che si creò intorno a Broch la nomea di autore difficile ed esoterico, che resiste tuttora.
In 1903. Esch o l’anarchia, lo strumento narrativo rappresentato dai personaggi si sfalda. Poco ne sappiamo, e quel poco è spesso dilavato nella banalità dell’accadere. August Esch, il protagonista, è un trentenne impiegato di commercio nella città di Colonia: licenziato dalla propria azienda, si sposta a Mannheim dove dapprima si fa assumere dalla Mittelrheinische, una compagnia di navigazione fluviale, e poi, una volta conosciuto un gruppo di intrattenitori da circo (lancio di coltelli, nientemeno) decide di investire, con esito disastroso, sulla loro attività teatrale. Una serie di amoretti corrivi lo porterà su e giù tra Mannheim e Colonia, dove, alla fine del libro, si sposerà con la padrona di un’osteria, per la quale prova una tiepida attrazione. Tutto qui? Sì, e con elementi descrittivi ridotti al minimo: di Esch sappiamo che ha una pelle giallastra, capelli a spazzola, denti cavallini, poco altro.
È proprio nel vuoto della descrizione e nelle falle dell’accadere che Broch si insinua: il suo pennino prende una conformazione lenticolare e si moltiplica in un minuzioso, tenace, stupefacente lavorìo di analisi, come se la prosa non fosse più un punto di vista dall’alto, onnisciente e sintetico, ma un formicolante esercizio di ingrandimento e dissezione di ogni esperienza vissuta (il desiderio, i progetti di lavoro, le amicizie e inimicizie, l’impegno politico…), nel quale il vissuto di quegli anonimi personaggi (il collega di lavoro, l’accalorata sorella di lui, l’anarchico zoppo, l’ostessa, il direttore di teatro, la ragazza ungherese che sorride mentre intorno a lei, su un palcoscenico, volano i coltelli…) si allenta e si disgrega, smarrisce la propria struttura causale, rinnega la promessa di integrità, crea tra gli uni e gli altri un’intercapedine che rende estranei gli intimi.
La perdita del centro e la dissoluzione dell’individuo sono temi non nuovi: nella stessa Vienna dove Broch cresce sono declinati in vario modo da Roth, da Musil, soprattutto da Hofmannsthal cui Broch stesso dedicò le sue più belle pagine critiche. Ma ciò che Hofmannsthal guarda attraverso un magico velo di tulle, che alona di una calda luce nostalgica l’idea di una civiltà perduta (il mito absburgico), Broch lo guarda invece a occhio nudo, trafiggente, a piene
IL GENERE ROMANZO è RIFORMULATO RADICALMENTE E TRASFORMATO IN UN SISMOGRAFO DELLA PERDITA DEI VALORI
diottrie. Intorno all’enigma dell’esistenza l’aureola della nostalgia decade perché il «far quadrare i conti», l’ossessione di Esch (la cui avventura comincia quando viene licenziato per un errore contabile), non fa più capo a un principio superiore di ordine e armonia, ma risponde a una nevrosi compulsiva: è un mero espediente normativo il cui fondamento si sgretola ad ogni tentativo di formularlo. In base a questa compulsione i «sonnambuli», che seguitano ad muoversi come se il loro sonno fosse veglia, sono agiti da una scrittura dura, aspra, puntiforme, di straordinario virtuosismo stilistico.
Così proliferano i registri del romanzo: l’apparente realismo, l’indifferenza da «Nuova oggettività», l’indagine psicologica, l’ironia, la sconnessione dei processi logici. Il narratore si fa apparecchio tecnico per registrare la «disgregazione dei valori», commentatore filosofico, dipintore di atmosfere, enunciatore di gnomiche sentenze. E in questo modo il principio narrativo commette seppuku: nell’ultimo pannello della trilogia le digressioni teoriche faranno saltare l’unità stilistica, che diventa un labirinto. La creazione artistica non sarà più una forma di conoscenza ma l’inganno e l’autoinganno che il protagonista della più celebre opera narrativa di Hermann Broch, La morte di Virgilio, discopre nelle luci calanti alla fine della vita, quando la parola cede alla sommersione e al congedo.
Hermann Broch I Sonnambuli II. 1903. Esch o l’anarchia
Adelphi, pagg. 274, € 22