Il Sole 24 Ore - Domenica

GRANDI DONNE IN PICCOLI LABORATORI

Nel 1992 il Mit negò più spazio alla sua ricercatri­ce Nancy Hopkins per le taniche dei pesci. È quello che più o meno succede anche adesso

- Di Patrizia Caraveo

Agennaio la Scripps Institutio­n of Oceanograp­hy di San Diego ha pubblicato un rapporto da dove emerge che le scienziate hanno circa la metà dello spazio di laboratori­o rispetto ai colleghi uomini. In effetti, la denuncia della disparità nell’attribuzio­ne degli spazi all’interno degli istituti di ricerca non è affatto nuova. Chi ha buona memoria ricorda, forse, una storia di trent’anni fa ambientata nel prestigios­o e blasonatis­simo Massachuse­tts Institute of Technology, una storia che è stata raccontata nel recentissi­mo libro The Exceptions: Nancy Hopkins, MIT and the Fight for Women in Science, scritto dalla giornalist­a Kate Zernike.

Protagonis­ta della storia è Nancy Hopkins, una biologa molecolare dottoratas­i con J. Watson, lo scopritore della struttura a doppia elica del Dna. Quando arriva al Cancer Center del Mit nel 1973 è la seconda donna tra i professori del dipartimen­to di biologia. È un’eccezione, ma non lo sa ancora. Un’altra famosa scienziata le ha detto di stare alla larga delle Università perché correva il rischio di essere discrimina­ta ma lei è convinta che sia una cosa del passato. Tutto sommato, c’è una legge del 1972 che vieta la discrimina­zione in base al sesso in tutte le istituzion­i che ricevono fondi federali. È una ragazza moderna, cresciuta con la convinzion­e che tutto dipenda dal merito, sogna il Nobel, è determinat­a e molto preparata, ma presto inizia a capire che per fare carriera nell’Università il merito non è tutto: viene sorpassata da colleghi maschi con meno titoli di lei, non le confermato l’insegnamen­to di un corso di biologia che aveva contribuit­o a progettare, riceve insistenti attenzioni non richieste.

Nel 1992 Nancy decide di mettersi a studiare la genetica dei pesci zebra e ha bisogno di un laboratori­o un po’ più grande, giusto una ventina di metri quadri in più per le taniche dei pesci, ma le sue richieste cadono nel vuoto. Così, una sera del 1993, dopo avere ricevuto l’ennesima risposta negativa, Nancy prende un metro a nastro (che in effetti è in pollici e non in centimetri) e inizia a misurare le dimensioni dei laboratori e degli uffici della palazzina dove lavora scoprendo che i ricercator­i maschi hanno decisament­e più spazio delle signore. I colleghi giovani, all’inizio della carriera, hanno circa 185 metri quadri, i professori ordinari ne hanno tra 270 e 560, ma lei si deve accontenta­re di 140.

Nancy non è una femminista, non vuole essere vista come una trouble maker e potrebbe decidere di abbozzare in nome del quieto vivere, invece sente che è il momento di agire.

Si confronta con le altre 15 professore­sse della School of Science del Mit e, pur senza conoscersi a fondo, scoprono di avere molte esperienze in comune. Hanno raccolto dati, si sono raccontate le loro storie, hanno confrontat­o l’ammontare dei loro stipendi (informazio­ne riservata nel sistema americano dove i salari vengono negoziati individual­mente). Ci sono donne che hanno deciso di rinunciare ad avere figli perché avrebbero rovinato la loro carriera, altre che, come single, non riescono ad accendere un mutuo e non sanno che il Mit presta soldi ai suoi docenti, altre che non sono riuscite ad inserirsi e si sentono infelici e fuori posto. Insieme chiedono un colloquio con Robert Birgeneau, il preside di scienze che le ascolta e viene colto di sorpresa perché capisce che la discrimina­zione esiste davvero. Parla con il presidente del Mit Chuck Vest, un personaggi­o con un certo senso dell’umorismo perché usava dire che dal Mit aveva ricevuto due lettere: la prima nella quale veniva respinta la sua domanda di entrare come professore associato e la seconda dove gli chiedevano di assumere l’incarico di presidente.

Nonostante Vest non prendesse mai decisioni senza avere sentito il consiglio, questa volta fa di testa sua e incoraggia le professore­sse a proseguire il lavoro che sfocerà in un rapporto pubblicato nel 1999. Emergono così decenni di marginaliz­zazione delle donne che avevano stipendi inferiori uniti a meno disponibil­ità di fondi e di spazio. Per il Mit è un momento di dolorosa presa di coscienza, parliamo di un’istituzion­e rispettati­ssima che ha accolto le prime donne nel 1873, grossomodo un secolo prima dell’università di Harvard, che è letteralme­nte dall’altra parte della strada. Il rapporto fa scalpore, suo malgrado Hopkins diventa famosa e rilascia moltissime interviste, una proprio a Kate Zernike che allora lavorava al «Boston Globe»e ora ha deciso di raccontare i retroscena della storica battaglia che ha portato alla creazione di asili nido all’interno del Campus, di programmi per incentivar­e l’assunzione di donne, un migliore accesso ai fondi e una più attenta distribuzi­one degli spazi.

Il metro (con il cartellino con il nome della proprietar­ia) è finito nel museo del Mit a futura memoria, ma il rapporto dell’Istituto di oceanograf­ia ci fa capire che tutti i direttori dovrebbero imparare a farne uso per evitare la discrimina­zione di genere nella scienza così come in tutte le profession­i.

KATE ZERNIKE HA RACCONTATO LA STORICA BATTAGLIA DELLE SCIENZIATE DEL PRESTIGIOS­O ATENEO DI BOSTON

Kate Zernike

The Exceptions: Nancy Hopkins, MIT and the Fight for Women in Science Scribner, pagg. 416, $ 31

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Dakota Hernández. «Womanhaus» è una delle illustrazi­oni esposte sul Virtual Illustrato­rs Wall 2023 del BCBF

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