ORA AL REGIME PER IL CONTROLLO BASTA UN TWEET
Byung-Chul Han è un filosofo pop coreano di nascita e tedesco di formazione. Con un dottorato su Heidegger alle spalle, ha avuto la brillante idea di scrivere uno «sciame» (il termine è suo) di libri brevi e ragionevolmente semplici sul senso del nostro tempo. I temi prescelti sono temi rilevanti del presente, a cominciare dalla condizione digitale in cui siamo volenti o nolenti immersi. A voler essere maliziosi, si può dire che Byung-Chul Han ti fa saggiare il profumo della filosofia a costo non troppo alto e quindi fa sentire sofisticato anche chi non lo è, lusingandolo assai.
A voler essere generosi, si può dire che il nostro ha acume da vendere, che il misto East-West è premiante e che in fondo continua un discorso che era stato aperto, in maniera più profonda, dalla Scuola di Francoforte (certo, da Adorno a Habermas siamo ad altri livelli, ma questo per la verità vale per quasi tutti quelli che si occupano di filosofia della cultura). Il suo ultimo libro tradotto in italiano (l’originale tedesco è del 2020), intitolato Infocrazia: le nostre vite manipolate dalla rete, è un esempio chiaro di quanto detto. Del fatto che la digitalizzazione sia pervasiva e invada tutti gli ambiti delle nostre vite c’è poco da dubitare. Tra i vari ambiti in questione c’è sicuramente quello della politica e dell’economia. Infocrazia è il nome che Byung-Chul Han sceglie per definire e discutere il regime istituito dal capitalismo dell’informazione e dalla politica nell’età digitale.
Per quanto riguarda la politica digitalizzata – cui è dedicato il libro – ci sono quelli che ne privilegiano gli aspetti positivi e quelli che invece optano per sottolinearne gli aspetti negativi. Positiva è la maggiore inclusività che il digitale permette: per fare una Tv ci vuole Berlusconi, mentre per un tweet o una mail basta davvero poco. Negativa è la superficialità che molti legano all’informazione nell’era digitale: «BBC» e «New York Times» sono pieni di professionalità e garantiscono una discreta affidabilità delle notizie, mentre così non è per l’informazione in rete. Byung-Chul Han, però, in materia non ha soverchi dubbi, come del resto capita spesso agli autori di moda: dal suo punto di vista l’informazione digitale in politica è un disastro, noi siamo «manipolati dalla rete» – come recita il sottotitolo del libro – e i regimi infocratici sono «totalitari».
Nel sostenere a spada tratta una tesi drammatizzante come questa, Byung-Chul Han usa il Marx della critica della ideologia e dello sfruttamento capitalistico, ma lo scarta subito per essere il critico di un’industrializzazione primitiva che non esiste più. Più di Marx lo intriga Foucault, da cui riprende il tema della repressione sistematica da parte del potere. Lo fa, tuttavia, alla luce di una differenza fondamentale. I dispositivi di disciplinamento immaginati da Foucault mirano a isolare l’individuo e a oscurare la luce della verità, mentre quelli della infocrazia sono basati sulla trasparenza totale condivisa. L’equivalente del carcere foucaultiano, che ti rinchiude, è in infocrazia una prigione aperta e trasparente. Oggi tutto è disponibile come dato e informazione, per cui viviamo in uno stato di permanente controllo collettivo. Anche perché il potere, che è sempre e per sua natura arcano, si nasconde dietro il «dataismo» di superficie. In sostanza, il regime infocratico non sfrutta il lavoro, come vuole Marx, e i corpi delle persone, come nella biopolitica di Foucautl, ma l’informazione e i dati.
Partendo da Marx e Foucault e arrivando al potere digitale, Byung-Chul Han passa inevitabilmente per Zuboff e il suo Capitalismo della sorveglianza (edito in italiano da Luiss University Press), dove il primo termine allude a Marx e il secondo a Foucault. Ma, anche in questo caso, Byung-Chul Han è abile nel prendere le distanze. Zuboff è più interessata allo sfruttamento delle nostre emozioni da parte delle grandi compagnie digitali – i Google e Amazon di turno –, mentre Byung-Chul Han preferisce la critica della sfera pubblica nell’età digitale. Parlare di sfera pubblica implica – soprattutto in Germania, ma non solo – fare riferimento a Habermas e al suo famoso libro del 1962 su questo
BYUNG-CHUL HAN SCRIVE UNO «SCIAME» DI LIBRI BREVI E RAGIONEVOLMENTE SEMPLICI SUL SENSO DEL NOSTRO TEMPO
tema. Anche qui Byung-Chul Han ha gioco facile a criticare Habermas che non avrebbe tenuto conto dei nuovi media (e del resto come avrebbe potuto nel 1962?), pur se si deve dire che ByungChul Han non considera il fatto che il libro del 1962 ha subito da allora due revisioni che lo rendono meno inattuale.
L’infocrazia, ci dice ByungChul Han che vuole essere più radicale di Habermas, annichilisce la sfera pubblica. E lo fa per almeno due ragioni. Da un lato, impone superficialità, e qui l’esempio è Trump, il primo Presidente che usa sistematicamente twitter. Dall’altro, l’infocrazia propone un modo di essere egotico e individualistico, mentre la sfera pubblica della politica pre-digitale era intersoggettiva e dialogica. L’infocrazia – suggerisce Byung-Chul Han – rende impossibile il dialogo razionale e cancella l’alterità. E, in questo modo, distrugge le fondamenta della politica democratica.
Che dire, in conclusione, di Infocrazia? Nel complesso, si tratta di un libro suggestivo e intelligente, che vale la pena di leggere. Questo, anche se è probabile che la politica digitale sia meno diversa da quella tradizionale di come crede Byung-Chul Han e se il plot drammatizzante sembra talvolta adoperato con astuzia per attrarre il lettore.
Byung-Chul Han Infocrazia: le nostre vite manipolate dalla rete Einaudi, pagg. 88, € 12,50