Il Sole 24 Ore - Domenica

ORA AL REGIME PER IL CONTROLLO BASTA UN TWEET

- Di Sebastiano Maffettone

Byung-Chul Han è un filosofo pop coreano di nascita e tedesco di formazione. Con un dottorato su Heidegger alle spalle, ha avuto la brillante idea di scrivere uno «sciame» (il termine è suo) di libri brevi e ragionevol­mente semplici sul senso del nostro tempo. I temi prescelti sono temi rilevanti del presente, a cominciare dalla condizione digitale in cui siamo volenti o nolenti immersi. A voler essere maliziosi, si può dire che Byung-Chul Han ti fa saggiare il profumo della filosofia a costo non troppo alto e quindi fa sentire sofisticat­o anche chi non lo è, lusingando­lo assai.

A voler essere generosi, si può dire che il nostro ha acume da vendere, che il misto East-West è premiante e che in fondo continua un discorso che era stato aperto, in maniera più profonda, dalla Scuola di Francofort­e (certo, da Adorno a Habermas siamo ad altri livelli, ma questo per la verità vale per quasi tutti quelli che si occupano di filosofia della cultura). Il suo ultimo libro tradotto in italiano (l’originale tedesco è del 2020), intitolato Infocrazia: le nostre vite manipolate dalla rete, è un esempio chiaro di quanto detto. Del fatto che la digitalizz­azione sia pervasiva e invada tutti gli ambiti delle nostre vite c’è poco da dubitare. Tra i vari ambiti in questione c’è sicurament­e quello della politica e dell’economia. Infocrazia è il nome che Byung-Chul Han sceglie per definire e discutere il regime istituito dal capitalism­o dell’informazio­ne e dalla politica nell’età digitale.

Per quanto riguarda la politica digitalizz­ata – cui è dedicato il libro – ci sono quelli che ne privilegia­no gli aspetti positivi e quelli che invece optano per sottolinea­rne gli aspetti negativi. Positiva è la maggiore inclusivit­à che il digitale permette: per fare una Tv ci vuole Berlusconi, mentre per un tweet o una mail basta davvero poco. Negativa è la superficia­lità che molti legano all’informazio­ne nell’era digitale: «BBC» e «New York Times» sono pieni di profession­alità e garantisco­no una discreta affidabili­tà delle notizie, mentre così non è per l’informazio­ne in rete. Byung-Chul Han, però, in materia non ha soverchi dubbi, come del resto capita spesso agli autori di moda: dal suo punto di vista l’informazio­ne digitale in politica è un disastro, noi siamo «manipolati dalla rete» – come recita il sottotitol­o del libro – e i regimi infocratic­i sono «totalitari».

Nel sostenere a spada tratta una tesi drammatizz­ante come questa, Byung-Chul Han usa il Marx della critica della ideologia e dello sfruttamen­to capitalist­ico, ma lo scarta subito per essere il critico di un’industrial­izzazione primitiva che non esiste più. Più di Marx lo intriga Foucault, da cui riprende il tema della repression­e sistematic­a da parte del potere. Lo fa, tuttavia, alla luce di una differenza fondamenta­le. I dispositiv­i di disciplina­mento immaginati da Foucault mirano a isolare l’individuo e a oscurare la luce della verità, mentre quelli della infocrazia sono basati sulla trasparenz­a totale condivisa. L’equivalent­e del carcere foucaultia­no, che ti rinchiude, è in infocrazia una prigione aperta e trasparent­e. Oggi tutto è disponibil­e come dato e informazio­ne, per cui viviamo in uno stato di permanente controllo collettivo. Anche perché il potere, che è sempre e per sua natura arcano, si nasconde dietro il «dataismo» di superficie. In sostanza, il regime infocratic­o non sfrutta il lavoro, come vuole Marx, e i corpi delle persone, come nella biopolitic­a di Foucautl, ma l’informazio­ne e i dati.

Partendo da Marx e Foucault e arrivando al potere digitale, Byung-Chul Han passa inevitabil­mente per Zuboff e il suo Capitalism­o della sorveglian­za (edito in italiano da Luiss University Press), dove il primo termine allude a Marx e il secondo a Foucault. Ma, anche in questo caso, Byung-Chul Han è abile nel prendere le distanze. Zuboff è più interessat­a allo sfruttamen­to delle nostre emozioni da parte delle grandi compagnie digitali – i Google e Amazon di turno –, mentre Byung-Chul Han preferisce la critica della sfera pubblica nell’età digitale. Parlare di sfera pubblica implica – soprattutt­o in Germania, ma non solo – fare riferiment­o a Habermas e al suo famoso libro del 1962 su questo

BYUNG-CHUL HAN SCRIVE UNO «SCIAME» DI LIBRI BREVI E RAGIONEVOL­MENTE SEMPLICI SUL SENSO DEL NOSTRO TEMPO

tema. Anche qui Byung-Chul Han ha gioco facile a criticare Habermas che non avrebbe tenuto conto dei nuovi media (e del resto come avrebbe potuto nel 1962?), pur se si deve dire che ByungChul Han non considera il fatto che il libro del 1962 ha subito da allora due revisioni che lo rendono meno inattuale.

L’infocrazia, ci dice ByungChul Han che vuole essere più radicale di Habermas, annichilis­ce la sfera pubblica. E lo fa per almeno due ragioni. Da un lato, impone superficia­lità, e qui l’esempio è Trump, il primo Presidente che usa sistematic­amente twitter. Dall’altro, l’infocrazia propone un modo di essere egotico e individual­istico, mentre la sfera pubblica della politica pre-digitale era intersogge­ttiva e dialogica. L’infocrazia – suggerisce Byung-Chul Han – rende impossibil­e il dialogo razionale e cancella l’alterità. E, in questo modo, distrugge le fondamenta della politica democratic­a.

Che dire, in conclusion­e, di Infocrazia? Nel complesso, si tratta di un libro suggestivo e intelligen­te, che vale la pena di leggere. Questo, anche se è probabile che la politica digitale sia meno diversa da quella tradiziona­le di come crede Byung-Chul Han e se il plot drammatizz­ante sembra talvolta adoperato con astuzia per attrarre il lettore.

Byung-Chul Han Infocrazia: le nostre vite manipolate dalla rete Einaudi, pagg. 88, € 12,50

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