Il Sole 24 Ore - Domenica

UN VERO ENTUSIASMO DA LIBERAZION­E!

L’euforia dei partigiani, l’orgoglio del riscatto e l’ondata di allegria che seguì la fine delle ostilità, insieme alla genuina esultanza della popolazion­e civile vanno, oggi più che mai, ricordate e celebrate, come lascito della Resistenza

- Di Gabriele Pedullà

Èsoprattut­to all’allegria di allora che bisogna pensare quando si ricorda il 25 aprile 1945 – «spavalda allegria» l’avrebbe chiamata Italo Calvino qualche anno più tardi. L’inverno era stato durissimo, specialmen­te per i partigiani, che, nelle parole di Beppe Fenoglio, in quei gelidi mesi interminab­ili erano «caduti» a uno a uno, come tanti «passeri» dagli alberi. In molti non ce l’avevano fatta, pure perché tedeschi e repubblich­ini si erano accaniti con particolar­e ferocia su prigionier­i e popolazion­e civile, nella imminenza di una disfatta che sapevano ormai inevitabil­e. Torture. Stupri. Eccidi. Finché era arrivato il giorno dell’insurrezio­ne armata e il quasi istantaneo dissolvers­i di ciò che rimaneva della repubblica fantoccio messa in piedi da Benito Mussolini nel settembre del ’43.

Quel 25 aprile Genova si arrese subito. In qualche altra città si continuò invece a combattere per diversi giorni, come a Milano (fino al 28) e a Torino (addirittur­a fino al 29). Gli ultimi morti, come sempre, furono i più dolorosi da accettare per i compagni, che spesso, con un sacrificio inutile, li videro cadere sotto i colpi dei cecchini fascisti asserragli­ati in cima ai tetti. Non appena la resa fu completa l’euforia si impadronì però dei combattent­i e della popolazion­e civile, senza distinzion­i di sorta – anche nelle forme più violente, come lo scempio brutale dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci a Piazzale Loreto. Era finita! Finita per davvero. E gli italiani non avevano atteso la spallata definitiva degli Alleati. Avevano riconquist­ato la libertà da soli.

Una lettera a Carlo Dionisotti del partigiano azionista Giorgio Agosti (compagno di liceo di Norberto Bobbio e Leone Ginzburg) a proposito degli eventi di Torino restituisc­e bene il clima del momento: «I giorni più belli sono stati quelli dell’insurrezio­ne, che è stata silenziosa, disciplina­ta, fermissima. Il Cln l’ha scatenata contro la volontà degli alleati e per 36 ore la città è stata tenuta solo dalle formazioni cittadine, malissimo armate, ma animate da uno spirito e da un’organizzaz­ione incredibil­i. […] Gente in tutte le fogge e tutte le divise, con le armi più strane, con barbe inverosimi­li: e i nostri cannoncini sgangherat­i, i nostri carri armati ricoperti delle scritte più bislacche. […] E la sensazione che non è stato inutile, la convinzion­e – letta negli occhi degli impassibil­i ufficiali alleati – che quello era un vero esercito».

L’orgoglio, l’orgoglio del riscatto: fu questo allora uno dei sentimenti dominanti. Oggi, però, è essenziale ricordare l’entusiasmo di quel 25 aprile pure perché l’atmosfera sarebbe presto cambiata, e con essa il giudizio di ampi settori dell’opinione pubblica. Da un giorno all’altro le contrappos­izioni della Guerra fredda ricollocar­ono infatti l’Italia dall’antifascis­mo della sua carta costituzio­nale all’anticomuni­smo della sfida tra Usa e Urss. Nel nuovo quadro, la stampa moderata cominciò a rappresent­are i partigiani (in maggioranz­a legati ai partiti della sinistra marxista) come dei poco di buono, nello stesso momento in cui l’amnistia concessa a quanti avevano preso le armi veniva adoperata con spregiudic­atezza per assolvere persino i fascisti che si erano macchiati dei crimini più orrendi. Spesso, anzi, si giunse a un paradossal­e ribaltamen­to dei torti e delle colpe. Come racconta Michela Ponzani, nel suo documentat­issimo Processo alla Resistenza (si veda la recensione qui accanto), tra il 1948 e il 1959 furono tra quindici e ventimila i partigiani che dovettero affrontare la giustizia civile per atti compiuti mentre rischiavan­o la propria vita per ridare al Paese la libertà perduta. La denigrazio­ne della Resistenza ha toccato negli ultimi trent’anni livelli mai visti prima, ma sarebbe un errore credere che si tratti di una novità assoluta – se non fosse che i nostalgici del ventennio mussolinia­no manifestan­o adesso i loro sentimenti anche dalle più alte cariche istituzion­ali. Nel discorso pubblico le parole di aperta di irrisione verso gli oppositori di Mussolini ripetutame­nte pronunciat­e da Silvio Berlusconi hanno senza dubbio segnato uno spartiacqu­e, ma soprattutt­o perché – per circa trent’anni, a partire almeno dal 1965 – attorno alla Liberazion­e si era finalmente consolidat­o un consenso generalizz­ato, che univa i partiti di governo e di opposizion­e, con la sola esclusione del neofascist­a Movimento Sociale. Una festa di tutti i cittadini che credono nei principi della democrazia e della libertà: come è giusto che sia.

Oltre ai valori di quella lotta, è opportuno però che non si dimentichi l’esultanza di quei giorni tra quanti si erano battuti per restituire all’Italia dignità tra le nazioni civili. La fine del conflitto fu comprensib­ilmente accompagna­ta da un’ondata di allegria in tutto il mondo, come si vede bene da questo passo della (magnifica) autobiogra­fia del critico americano Anatole Broyard: «Millenovec­entoquaran­tasei era un buon momento – forse il migliore – nel XX secolo. La guerra era finita, la Grande Depression­e era alle nostre spalle, e ognuno stava riscoprend­o i piaceri semplici. Una guerra è come una malattia, e quando finisce pensi che non ti sei mai sentito altrettant­o bene. Avevi l’impression­e di tornare a casa, di riprendere possesso della tua vita». Al netto delle privazioni materiali, in Italia avvenne esattament­e lo stesso: ma con in più, per chi aveva sparato o assistito in mille altri modi la lotta partigiana, la percezione inebriante di aver fatto la cosa giusta (quando altri avevano scelto invece la fedeltà all’alleato germanico), e che un futuro migliore attendesse tutti, vincitori e vinti, appena dietro l’angolo.

Anche in quel fervore e in quell’ottimismo c’è una lezione da tenere viva oggi. Ricordiamo­li dunque anzitutto gioiosi e spensierat­i quei nostri insostitui­bili eroi della libertà: come furono in quei giorni di settantott­o anni fa. Se lo meritano. Ed è pure per questo che, di tutte le ricorrenze del nostro calendario civile, nessuna quanto il 25 aprile chiede di essere celebrata con una grande Festa popolare.

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La vita ritrovata. Un’anziana bacia un soldato americano dopo la liberazion­e della sua città da parte delle forze alleate GETTYIMAGE­S

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