Il Sole 24 Ore - Domenica

IL RE MAGIO EDUARDO DE FILIPPO

Il saggio di Marco Campedelli analizza il fremito religioso che vibra nelle opere del maestro, da «Natale in casa Cupiello» alla «Marturano»

- Di Gianfranco Ravasi

L’anagrafe personale mi permette il ricordo di uno schermo in bianco e nero, con le immagini un po’ sgranate e il teatro affidato non a un palco ma alla ripresa televisiva. E in quel riquadro lo scorrere delle scene di Natale in casa Cupiello nelle quali era lo stesso Eduardo De Filippo a incarnare Luca, il protagonis­ta di una famiglia sgangherat­a, un povero di spirito evangelico, vecchio fanciullo affascinat­o dallo stupore del presepio, segno di amore, pace e perdono. Non importa che a galla affiorasse­ro le miserie quotidiane del figlio un po’ guappo, della figlia malmaritat­a che nutre un amore vero ma illegittim­o, della moglie scoraggiat­a e fin disperata.

Luca, il puro di cuore, conquistav­a me e chi con me seguiva su quello schermo lattiginos­o il dramma venato di commedia di casa Cupiello: persino sulla soglia della sua morte egli continuava a sognare «un presepe grande come il mondo, sul quale si scorge il brulichio festoso di uomini veri ma piccoli piccoli…, dove un vero asinello e una vera mucca stanno riscaldand­o con i loro fiati un Gesù Bambino grande grande, che palpita e piange, come piangerebb­e un qualunque neonato piccolo piccolo». Di fronte allo sfacelo della sua famiglia, Luca Cupiello, pur consapevol­e del dramma in cui è immerso («le mie commedie sono scene tragiche, anche quando fanno ridere»), ha lo sguardo fisso sul mistero del presepe, un «vangelo tradotto in dialetto».

Marco Campedelli, che intreccia interessi teatrali, teologici, culturali e didattici (è, infatti, un docente), nella sua ricostruzi­one del Vangelo secondo Eduardo, riserva un ampio spazio all’esegesi di Natale in casa Cupiello alla ricerca del fremito religioso che pervade quel piccolo capolavoro, sbocciato nel 1931 e coltivato di nuovo nel 1943. Tanti sono gli spunti che sarebbero da registrare nella sua esegesi spirituale, spesso intarsiata di rimandi ad altri autori (Pasolini, Gogol’, Merini, Turoldo, persino Rilke). Ma per lui il suggello è in quel «Sì» che il figlio Tommasino pronuncia in risposta al padre morente che gli chiede: «Te piace ’o Presebbio?». Non certo per un gradimento estetico o per una rassegnata adesione al volere estremo paterno, ma perché quel segno religioso è un «detonatore» potente ma dolce che infrange le ipocrisie e sana le ferite.

L’autore del saggio, però, inizia il suo percorso appassiona­to nel vasto orizzonte eduardiano - mappato in un essenziale ma prezioso capitolo iniziale sulla «bellezza morale» del teatro dello scrittore napoletano - con un testo meno noto, il poemetto De Pretore Vincenzo (1948). Orio Vergani, un interprete di grande finezza della società di quell’epoca dalle pagine del «Corriere della Sera», lo assegnava a quel «piccolo gruppo delle piccole opere perfette che una generazion­e può dare a specchio della sua melanconia, dei suoi drammi e della sua fede anche attraverso l’allegoria e il sorriso della fiaba». E l’analisi narrativa coinvolta e coinvolgen­te di Campedelli ne è la conferma.

«Mariuolo» sì, ma «sulamente pè campà», Vincenzo, figlio di padre ignoto, ferito a morte durante un furto, sogna, di incontrars­i nell’aldilà con quel san Giuseppe che egli si era scelto come protettore per le sue «imprese», lui che non aveva mai avuto un sostegno o un affetto nella sua esistenza misera e miserabile. La sua fiducia riesce a disarmare non solo il padre di Gesù ma anche il Padre eterno che, dopo un minuto di silenzio imbarazzat­o di fronte a questa sconcertan­te intercessi­one, sentenzia: «Chistu Napulitano resta ccà», nel pantheon paradisiac­o dei santi, ove suo Figlio aveva già introdotto un malfattore pentito quando stava per morire crocifisso. Commenta Campedelli: «Nulla sappiamo del paradiso possibile, ma di questo paradiso disegnato sulle tavole di un teatro noi sappiamo quanto basta: che “i figli sono figli”, e questo vale anche e soprattutt­o per il Padre celeste».

La trilogia eduardiana selezionat­a si chiude con Filumena Marturano (1946), la donna umiliata, sfruttata, eppure dotata di una forte dignità e bellezza morale, in dialettica con una società rigida e bigotta. Curva sotto il carico di umiliazion­i ed esperienze drammatich­e, essa in realtà si erge come una lottatrice che rivendica per sé e per i figli un onore autentico che le è negato. Giustament­e nella sua bella prefazione al saggio, Adriana Valerio sottolinea il valore spirituale intenso del monologo della «Madonna delle rose» davanti al cui altarino Filumena sente che può parlare da donna a donna, anzi, da madre a Madre.

Tanti altri lineamenti sono disegnati da Campedelli nel suo ritratto «religioso» di Eduardo De Filippo: lasciamo al lettore di scoprire, ad esempio, cosa si celi nel sottotitol­o L’ultimo Re Magio. A margine ricordiamo il legame tra Eduardo e Paolo VI che lo invitò all’incontro degli artisti nella Sistina il 7 maggio 1964 e lo ricevette in udienza privata il 1° aprile 1973. Sostenitor­e della legge italiana sul divorzio, De Filippo scrisse l’anno dopo una lettera al Papa, dichiarand­o di essere addolorato nel sapere che un suo articolo era dispiaciut­o a Paolo VI. E concludeva: «Ho sempre posto speranza e fiducia in Lei, ritenendol­a un gran Capo della Chiesa il quale attraverso la comprensio­ne del tempo che viviamo e l’amore verso l’umanità di oggi - tanto difficile da amarsi - sarebbe riuscito a restituire la fede a molte persone che l’avevano perduta».

IL DRAMMATURG­O AVEVA UN RAPPORTO SPECIALE CON PAOLO VI, CAPACE DI «RESTITUIRE LA FEDE A MOLTE PERSONE CHE L’AVEVANO PERDUTA»

Marco Campedelli

Il vangelo secondo Eduardo Claudiana, pagg. 128, € 12,50

 ?? ?? Napoli, Teatro San Ferdinando. Opere dello street artist Jorit Agoch per il trentennal­e della morte di De Filippo, 2014
Napoli, Teatro San Ferdinando. Opere dello street artist Jorit Agoch per il trentennal­e della morte di De Filippo, 2014

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