NELLA NEBBIA FITTA DELLA DEFORMITà UMANA
Tornato al romanzo dopo mezzo secolo di assenza, il quasi novantenne drammaturgo, poeta, romanziere, saggista nigeriano Wole Soyinka, Nobel per la letteratura nel 1986, consegna ai posteri un’opera imponente, ingegnosa e multiforme. Le Cronache dalla terra dei più felici al mondo, scritte intrecciando fatti storici e invenzioni tristemente verosimili sono, usando le parole di un loro personaggio, «una discesa nella nebbia fitta della deformità umana». Per «commistione di dolore» e di «lucidità immaginifica», ricordano la Cognizione del dolore di Gadda (che con queste parole definiva la poesia di Catullo).
Satira amarissima della «NazioneStraordinariamentePiùCorrottaalMondo»(encomioaffibbiatoleda un ingrato ex funzionario coloniale), scaraventa il lettore sin dalle prime paginenelcaoscaleidoscopicodelGigante d’Africa, dove niente è come sembra,tuttositrasformaincessantemente e lo fa in miriadi di rivoli differenti e imprevedibili. Lo porta, ad esempio, a osservare una donna avvolta negli effetti speciali di una “camera magica” allestita in un edificio esternamente fatiscente che si regge suunacollinadiimmondizia,mentre si fa soggiogare e abbindolare da un sedicenteprofeta.Unodeitanti«trafficanti spirituali» che abbondano in questo Paese dove il «vuoto metafisico»lasciatodallanegazionedell’umanità africana durante la tratta degli schiavielacolonizzazioneèstatosurrettiziamente riempito dal parossismo delle fedi. Dove «più ricordiamo, epiùdensaèl’oscuritàcheciavvolge».
O fa attendere il lettore per decine e decine di pagine nella sala d’aspetto del primo ministro, mentre nel palazzo si tessono intrighi che si scontreranno con altri di segno opposto, s’inanellano scenette comiche, sarcastiche, paradossali, si fabbricano intrighi su scala nazionale e pirotecnici congegni di distrazione di massa, si approfitta di ogni debolezza del sistema cognitivo umano per manipolare desideri e azioni.
E in questo turbine di parole e avvenimenti chi legge ha come l’impressione di trovarsi a piedi in mezzo a un incrocio del centro di Lagos. Impotente, incapace di tenere sotto controllo le traiettorie di uomini e oggetti semoventi che provengono da tutte le direzioni, di capire quali sono le cause e quali gli effetti di ciò che si agita attorno a lui, di separare parole e suoni che compongono un frastuono assordante. Gli pare d’essere in balìa del racconto - sempre sul punto di esserne travolto, intossicato, aggredito - stordito com’è dai personaggi che si affollano riga dopo riga, dalle storie che s’accavallano, s’intrecciano e si spezzano nel passato e nel presente, dalla esuberante, tracotante, galoppante creatività criminale che si insinua in ogni riga facendo nascere il dubbio in ogni frase, in ogni scena. Sopraffatto dalle crudeltà che si consumano nelle strade e nelle case.
Solo dopo centinaia di pagine alla mercé di un tale ipertrofico caravanserraglio il lettore, che a questo punto ha fatto esperienza quasi fisica della baraonda in cui scorre la vita dei nigeriani, comincia a intravedere dei nessi. Non certo una visione d’insieme, né un senso, ma una schiarita, dei percorsi, delle traiettorie che s’incrociano, s’incanalano in altre. E capisce così che in questo brulicante affresco della Nigeria odierna il narratore ha nascosto le storie divergenti di quattro amici che un giorno erano stati studenti pieni di ambizioni e di desiderio di restituire al loro popolo - che di lì a poco otterrà l’indipendenza - quel che avevano imparato all’università dei bianchi. E che poi hanno dovuto fare «i conti con le conseguenze, o forse con gli effetti, di imposizioni e scelte dettate dalla necessità di sopravvivere».
Sono il dottor Menka, chirurgo che su, nel Nord, ormai non fa altro che ricucire i corpi delle vittime di Boko Haram, delle autostrade lastricate di buche dove ci si può accomodare un elefante e operare le terribili fistole formatesi nel corpo delle bambine stuprate; Duyole Pitan-Payne, ingegnere brillante e festaiolo dall’entusiasmo dirompente che riesce - o forse crede di riuscire - a fare il suo lavoro onestamente senza dover venire a patti con la corruzione del governo, ma senza farsi spazzare via; Badetona, detto il Beffardo, mago della contabilità che si è guadagnato una posizione nella «casta degli intoccabili a tempo indeterminato» e il fascinoso e carismatico Farodion, di cui nessuno ha più notizie da molti anni.
I loro destini si riuniranno di nuovo in modo imprevisto quando Menka si troverà, suo malgrado, coinvolto in un traffico di resti umani venduti per rituali di magia nera da un’impresa efficiente e dinamica non diversa da quelle che trattano merci che si possono vendere alla luce del giorno e che, sardonico, Soyinka ha battezzato «Risorse umane».
«Il problema è questo, Baba. In quale direzione porta la legge della domanda e dell’offerta?» chiederà il dottor Menka, riferendosi al macabro commercio, ma ponendo una domanda universale. «Quello che succede qui, da noi, arriva a mettere in discussione la stessa nozione di “anima”. Non c’è più un’anima collettiva, condivisa. Si è rotto qualcosa dentro. È qualcosa che va oltre la razza. Oltre il colore della pelle, oltre la storia. Qualcosa è andato in frantumi e i frantumi non si possono più attaccare», osserverà un giorno Duyole dopo aver letto dell’ennesima lapidazione della folla inferocita. Un Paese dove ci si mangia a vicenda: Soyinka fa di metafora realtà.
Wole Soyinka
Cronache dalla terra dei più felici al mondo Traduzione di Alessandra Di Maio La nave di Teseo, pagg. 570, € 24