L’OBELISCO DI AXUM E LA FESTA DEL RITORNO
Nel testo che leggerà alla Milanesiana (e che anticipiamo) lo scrittore nigeriano denuncia la catastrofe globale dello schiavismo prendendo spunto dalla restituzione italiana
Se parliamo di ritorni, ce n’è uno che mi ossessiona in particolare. E sorprendentemente l’Italia, più di ogni altra nazione, pare promuoverne il programma e la sua potenziale realizzazione. Forse dipende dalla sua posizione geografica e dalla sua storia. Grazie a questi stimoli, l’Italia sembra gioire del suo ruolo di agente provocatore, facendo sì che questo concetto non venga dimenticato. La paziente musa dei Ritorni vive in questi climi e non sarà soddisfatta finché questo Ritorno particolare non verrà compiuto in tutta la sua pienezza. Il suo arco risanatore continua a richiamare come un portale che si apre alla riconciliazione universale.
Tra questi spunti, c’è stato un gesto spettacolare come il Ritorno dell’obelisco di Axum, bottino della guerra di Mussolini in Etiopia. Esso è ritornato giustamente a casa sua, con grande clamore – e sapete che cosa ne è risultato? Scoperte ancora più grandi nel sottosuolo della sua precedente e illecita estrazione. Si ricorda, in tempi recenti, un Ritorno che abbia compensato la violenza iniziale con tanta ricchezza culturale? Altre nazioni – il Regno Unito, alcuni Paesi scandinavi, una manciata di istituzioni americane – soddisfano la coscienza nazionale con analoghe concessioni simboliche. Quest’anno l’Inghilterra ha restituito [alla Nigeria] un galletto di bronzo. Alcune istituzioni hanno manifestato l’intenzione di procedere a una restituzione totale. Hanno iniziato a fare copie di quanto possiedono immoralmente, perché gli originali possano tornare al loro posto.
Il ritorno dell’obelisco, in ogni caso, ha avuto un significato molto più ampio. Non si tratta solo di semplici dimensioni fisiche. Un obelisco non è un galletto che si può nascondere nello zaino. Un obelisco è qualcosa di più di un monumento: è Storia concreta, un paesaggio urbano compattato, un simbolo, un santuario, una custodia dell’anima della comunità – tutto in uno. Quando si sradica una tale stele e la si conficca altrove, si strappa qualcosa di più di una semplice zolla di terra. Si è creato un vuoto nello spirito di un popolo, si è rovesciato il suo orgoglio di esistere. A condividere tale valenza forse sono solo i marmi di Lord Elgin – la Grecia è zeppa di statue di marmo, eppure rimane irremovibile per quanto riguarda il ritorno di questi fregi e sculture.
Il ritorno dell’obelisco di Axum ha conferito una doppia valenza alla nostra comprensione della parola “monumento” – oggetto fisico e occasione di relazioni culturali. Così, per molti versi, si può dire che l’Italia abbia aperto la prospettiva ottimistica di una corsa all’oro in direzione opposta; e anche se il lavoro è lungi dall’essere completato, si è segnato un punto d’inizio – sia simbolico sia reale. Così non dovrei stupirmi che, curiosamente, all’interno di questo stesso Paese la mia privata ossessione per i ritorni sembri ricevere periodicamente nuova linfa. Le opere d’arte – dai galletti di bronzo ai marmi del Partenone – sono oggetti inerti che forniscono un’emozione sia estetica sia storica. L’emozione non è però un’essenza astratta che si disperde nel nulla – no, essa è oggetto di esperienza sia da parte dei creatori che dei consumatori – l’umanità. E questa per me è la destinazione finale, l’ossessione persistente che, in parole povere, consisterebbe in un Festival del ritorno annuale e itinerante!
L’ex presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, è uno dei leader africani che sembrano avere introiettato l’essenza di questa ossessione. Quando ce ne fu l’occasione, cominciò a placare una sete di cui non era consapevole. Infatti offrì al mondo un esempio di quello che è possibile fare, di ciò che l’umanità che è in noi chiede in tempi di bisogno o di crisi. Mi riferisco al terremoto di Haiti del 2015. Ciò che fece Wade dopo quella devastazione, fu aprire le frontiere del Senegal per accogliere tutte le vittime che volevano iniziare altrove una nuova vita. E dove poteva esserci un rapporto così vero e sentito, un senso di appartenenza, come nel continente da cui erano state strappate e disperse secoli prima? Nessuno pensava a un’improbabile armada diretta da Haiti all’Africa facendo il percorso a ritroso – anche se l’immagine non mancò di smuovere l’immaginazione. In ogni caso, anche se la ricollocazione fu limitata a orfani, studenti, malati, disabili e senzatetto, già in questo modo si trattò di una grande fonte di ispirazione, e qualcosa di più. L’Africa affermava una leadership nei doveri umanitari, mettendo in pratica l’ubuntu – l’imperativo della forza morale – che predicava Desmond Tutu: il fatto di riconoscere che tutti facciamo parte di quell’unico fastello che è l’umanità.
«I vostri antenati partirono di qui costretti con la forza», dichiarò il presidente Wade. «Voi siete tornati grazie alla forza morale. Non siete né stranieri né rifugiati, siete membri della nostra unica famiglia».
Si tratta di uno dei momenti più alti di consapevolezza politica che ci sia mai stato in Africa. È il linguaggio che alcuni di noi si sono sforzati invano di sentire dalla labbra dei leader di questo continente, perché poi venisse messo in pratica a favore delle centinaia di migliaia di persone che affidano la vita all’azzardo attraversando le sabbie del Sahara o salendo su zattere che solcano il Mediterraneo – un flusso senza fine che fugge la miseria di un’esistenza di cui molto spesso non è responsabile la crudeltà della natura (con terremoti, cicloni e tornado), ma solo una gestione delinquenziale del potere e della politica.
In ogni caso, un gesto isolato non basta. Ci deve essere una provocazione permanente attraverso quello che continuo a raccomandare come una grande festa del Ritorno. Da concepire in chiave soprattutto simbolica, quasi rituale: l’esorcismo annuale di una catastrofe globale – l’era dello schiavismo, della deportazione umana di massa. I cui conti continuano a essere aperti anche nel continente depredato. Il lato europeo di questa storia criminale sarà il trampolino di un evento che procederà come segue:
Dagli Stati Uniti, dai Caraibi, dal Brasile, dall’Europa e da qualunque altro luogo, i discendenti della Diaspora Africana – e tutti gli altri interessati – convergeranno in un porto del Mediterraneo prestabilito. Una armada di una o più imbarcazioni attraverserà quel mare affamato raggiungendo il porto più a settentrione di quel continente, per poi seguire la costa africana facendo tappa nei porti un tempo usati per la tratta degli schiavi: Il Cairo, Algeri, Essaouira, l’isola di Gorée, Cape Coast e/o Accra, il Benin, Badagry/Lagos. Le navi ospiteranno mostre, proiezioni di film, seminari, conferenze, performance, spettacoli, sfilate di moda e di body art, cucina africana precoloniale, svaghi tradizionali. I passeggeri saliranno e scenderanno a seconda delle loro necessità. Uno dei principali temi di discussione sarà, opportunamente, la crisi delle migrazioni. Il resto può essere lasciato all’immaginazione.
Tutto ciò è condannato a essere una fantasticheria? Forse sì, se pensiamo a una realizzazione completa. Ma è già stata fatta una prova che ne ha mostrato la praticabilità. Con l’energica complicità del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, una nave brulicante di alcune delle attività culturali e ricreative che ho elencato è salpata da Palermo la sera dell’8 giugno 2018, alla volta di Napoli. Fece ritorno dopo due notti: una versione in miniatura di quello che poteva essere in viaggio di sette, dieci o dodici giorni. La nave fu accolta sia dal sindaco di Napoli sia da quello di Amsterdam, allora in visita; salirono a bordo e presero parte alle varie attività.
Ulteriori sviluppi sembravano certi dopo quella prova – ma poi sono calati i lunghi giorni e le lunghe notti del Covid.
Forse ora tocca alla Milanesiana – la mano del Grande spirito del Risarcimento sembra chiamarci –, dato anche il tema che ispira questa edizione, e la possibilità che mi è stata data di partecipare a questo concerto di menti. È il passaggio dall’articolazione delle idee e dall’immaginazione all’esplorazione di un tema davvero globale, nella forma di un festival? Vale la pena di pensarci. Io posso solo tracciare le linee generali, e lascio a voi la sfida Il grande viaggio del ritorno.
Destinazione: Africa (Traduzione di Alberto Pezzotta)