SE SOLO POTESSIMO NON AVERE RIMPIANTI
Non sempre è chiaro il confine tra quello che è sotto il nostro controllo e ciò che non lo è. La differenza è però cruciale. Robert Leahy si sofferma sulle terapie cognitive volte a liberarci da paralizzanti sensi di colpa
Gelosia, invidia, rimpianto: tre sentimenti che riflettono la storia dell’evoluzione umana, marcata com’è dalla comparazione sociale. Tutti e tre presuppongono la capacità di immaginare mondi possibili, diversi da quelli passati o presenti.
La gelosia ci consuma nel timore immaginario di perdere l’oggetto d’amore.Unamoredubbioedubbioso, invero,perchésefosseautenticoepuro il timore svanirebbe. Shakespeare: È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Si nutre dell’amore e, al contempo, lo avvelena.
L’invidia induce a immaginare una presunta maggiore felicità indossando i panni altrui. Shakespeare: Oh, che cosa amara è guardare la felicità attraverso gli occhi di un altro uomo.
Il rimpianto si nutre del confronto tra il mondo reale, le cose come sono andate, e uno o più mondi ipotetici, dove sarebbero potute andare diversamente grazie a scelte più meditate.
La nostra specie è l’unica a essere fornita di capacità innate di immaginazione che sono benefiche se praticate in dosi moderate. La gelosia può metterci in guardia; l’invidia spingerci all’emulazione; il rimpianto aiutarci a evitare gli stessi errori.
Il film Sliding Doors (1998) narra quello che sarebbe successo alla protagonista, l’attrice Gwyneth Paltrow, se avesse preso o perso la metropolitana. Dopo undici minuti dall’inizio Paltrow si divide in due personaggi, le cui vite scorrono parallele. È una bambina che la fa ritardare e perdere il treno. Solo se la causa del ritardo fosse stata modificabile in quanto sotto il suo controllo, ad esempio un ritardo imputabile a pigrizia, ci sarebbe stato spazio per il rimpianto. Negli altri casi rimpianti e dolori sono inutili: non c’era nulla da fare. E tuttavia non sempre funziona l’impeccabile ragionamento di Shakespeare: quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza. Tant’è vero che l’inno più famoso al rifiuto di ogni rimpianto è stato cantato nel 1960 da Edith Piaf non in forza di un ragionamento ma nella speranza del nuovo amore (Non, je ne regrette rien). In altri casi, al contrario, il rimpianto può avere una funzione terapeutica e qui rientra in campo la nozione di controllo.
Nel 1984 pubblicai, insieme a Maria Sonino e a Rino Rumiati, un esperimento, in seguito più volte replicato e modificato, in cui si chiedeva di leggere una storia e, alla fine, di completare una frase che iniziava con: «Se solo…». La storia narrava del ritardo di un casellante che avrebbe dovuto chiudere un passaggio a livello e finiva con un automobilista travolto da un treno. I partecipanti completavano la frase con quella che, secondo loro, era stata la causa del tragico epilogo. C’erano più versioni della storia: se il ritardo del casellante era dovuto al crollo improvviso di un ponte, non c’era nulla da rimpiangere. Al contrario, se fosse stato indolente, allora si sarebbe biasimata l’assenza di puntualità.