MAPPE, TAVOLE E MANOSCRITTI DEL VIAGGIATORE
«L’aria indiana è piena di malanno/ qui ogni insinuazione ci fa danno». Così si presenta clamorosamente Aurangzēb, condottiero, tiranno e mistico del Corano, al padre, Shah Jahan, che sospetta una sua volontà di impadronirsi del potere, nel dramma concitato a lui intitolato, che John Dryden mandò in scena a Londra nel 1675. La vicenda controversa dell’imperatore Moghul, che Indù e Sikh consegnarono a una leggenda nera di morte e distruzione, è centrale nell’itinerario d’esistenza del veneziano Nicolò Manucci, che dalla nativa San Stin, tra avventure di ogni tipo, si trovò a svolgere numerosi ruoli nella corte indiana. Egli aveva visto e conosciuto da vicino la violenza di Aurangzēb.
Una tavola, magnifica, raffigura l’omaggio all’imperatore della testa di suo fratello il principe Dara Shikoh, che aveva perso la guerra per la successione. Per fedeltà a lui, che aveva ben conosciuto, egli rifiutò di mettersi al servizio del vincitore. Fu invece in seguito con Shah Alam, figlio dell’imperatore, ma infine volle tornare con gli europei. Travestito da frate carmelitano, fuggì dal mortifero fasto moghul e si recò a Madras, sotto la giurisdizione inglese, e poi a Pondichéry, convinto dal governatore, che fu un suo caro amico, François Martin. La sua biografia assai ben ricostruita da Marco Moneta nel libro Un veneziano alla corte Moghul (Utet, 2018), è al centro della mostra a lui dedicata, curata dallo stesso studioso insieme a Antonio Martinelli, con un bell’allestimento, ricco di mappe e itinerari firmato da Daniela Ferretti, con la direzione di Béatrice de Reyniès.
La cornice che accoglie la mostra assai ben realizzata, è quella, magnifica, del Palazzo Vendramin Grimani, dove opera la Fondazione dell’Albero d’Oro, che dal 2021 ha aperto il palazzo al pubblico, presentando tra l’altro lo scorso anno una ricognizione intorno a un magnifico ritratto di bambina di Lorenzo Tiepolo. Il puntuale quaderno a firma di Piero Falchetta (che nel 1986 aveva curato per Franco Maria Ricci la sontuosa edizione del manoscritto parigino con il titolo Mogol) e Marta Becherini che accompagna la mostra, I libri indiani di Niccolò Manucci (Fondazione dell’Albero d’Oro Edizioni, pagg. 94, € 15), ripercorre la vicenda del viaggiatore, che lasciò memoria di sé nel progetto memorabile della sua opera La storia del Mogol, che per la prima volta narrava all’Occidente quei mondi favolosi.
Un’opera a cui attese in età matura, quando presumibilmente aveva raccolto un patrimonio cospicuo. Tre sono i manoscritti che ci rimangono del testo, assai complesso, che mischia realtà e leggende ai fatti personali: a Parigi e Berlino si trovano due esemplari. Egli commissionò ad artisti di corte squisite miniature che si trovano nel Libro rosso, conservato alla Bibliothèque Nationale, e concesso eccezionalmente. Non meno importante la raccolta di immagini, di tutt’altro stile, assai più legate a un mondo popolare indù che adornano il suo Libro nero (alla Marciana), in cui si rappresenta il distacco estetico dalla corte moghul, approdando a rappresentazioni assai meno elaborate e più immediatamente realistiche di ambito indù. L’opera costituisce il maggiore corpus di immagini sull’India realizzato da un europeo. Gli specialisti considerano quest’ultimo il contributo maggiore alla conoscenza dell’India per il pubblico occidentale.
Manucci sognava il ritorno in laguna, che non si concretizzò mai: con questo progetto in mente, egli si dedicò a speculazioni che si rivelarono disastrose. Fu invece assai fortunata la sua carriera come medico, mestiere di cui aveva appreso i rudimenti dopo avere frequentato per due anni gli ospedali di Goa e di Dehli. Non meno felice fu quella come diplomatico: ottenendo successi notevolissimi a Goa, per conto dei portoghesi, nella lunga e complessa guerra contro i Maratha.
Il suo gran libro, opera di una persona che parlava molte lingue, ma non le padroneggiava nella scrittura, venne rapidamente plagiato. Nel 1715 comparve a Parigi la Histoire Générale de l’Empire de Mogol del gesuita François Catrou, che pur citando l’autore sul frontespizio (con una formula ambigua: sur les memoires), si era in sostanza impadronito del libro di Manucci, adattandolo al proprio disegno.
Aveva consegnato la copia parigina del libro a André Boureau-Deslandes, con il compito di pubblicarlo, ma l’edizione non andò in porto. I curatori hanno commissionato a Guido Fuga una serie di acquarelli, in cui l’artista veneziano ripercorre anche il suo personale itinerario che lo ha portato in Afghanistan a fianco di Alighiero Boetti e in India, dove ha realizzato, tra l’altro, tappeti insieme a Mario Schifano e opere in marmo, con il contributo degli artigiani locali. Nelle stanze del palazzo i display storici e geografici si specchiano in una serie di preziosi oggetti, provenienti in buona parte dalla Fondazione Bruschettini per l’Arte Islamica e Asiatica di Genova.
Nicolò Manucci, il Marco Polo deIl’India. Un veneziano alla corte Moghul nel XVII secolo Venezia, Fondazione dell’Albero d’Oro-Palazzo Vendramin Griman
Fino al 26 novembre