AL PADIGLIONE ITALIA L’ASSENZA DIVENTA CURA E PROMESSA
Mezzo vuoto e senza uno straccio di proposta per costruire un edificio. Suona male come presentazione del Padiglione italiano alla Biennale 2023, palcoscenico deputato a mostrare il meglio dell’architettura nazionale. In effetti, dopo la consueta scarpinata lungo l’Arsenale, entrando alle Tese delle Vergini l’impatto è quello dell’assenza, con il primo ambiente sgombro e rischiarato soltanto da un enorme maxischermo. Nella seconda sala, di palazzi neanche l’ombra: né musei, né grattacieli; neppure una casetta.
C’è però altro da scoprire, di diverso e altrettanto significativo, innescato dal lavoro dei curatori (il collettivo Fosbury Architecture). Nell’ottica di trasformare l’evento effimero in sostanza durevole, sono stati selezionati nove gruppi di giovani progettisti per realizzare dei progetti «pionieri» in territori fragili dello Stivale, avviati qualche mese fa e – questa è la speranza – con un futuro davanti. Agli architetti sono stati affiancati «advisor» di varia provenienza e associazioni o istituzioni per stimolare interazioni disciplinari.
Si spiega allora il vuoto iniziale. Metaforicamente, esso allude alla dislocazione dei contenuti del Padiglione, sparsi in giro per l’Italia; concretamente, si rispecchia la ripartizione dei fondi disponibili: dando la priorità ai progetti sul campo, una sala rimaneva scoperta.
A Trieste, la designer Vendrame e la regista Shametaj hanno «rianimato» un tunnel antiaereo con un’installazione sonora sul tema del confine e dell’inconscio collettivo. A Belmonte Calabro, il collettivo Orizzontale e Bruno Zamborlin, esperto di intelligenza artificiale, hanno creato panchine con sensori di vibrazione che producono musica in un giardino abbandonato. Nella Baia di Ieranto, luogo mitico dove Ulisse fu concupito dalle sirene, il compositore Maioli ha eseguito uno spettacolo polistrumentale nella nicchia a conchiglia di Fabrizio Ballabio e Alessandro Bava. A Cabras, in Sardegna, gli architetti Lemonot e Fiore lavorano sulla filiera produttiva della bottarga per un più ampio pensiero sui sistemi alimentari.
Nel quartiere Librino di Catania, Studio Ossidiana ha creato La Casa Tappeto, 144 metri quadrati di tessuto trasformabili in spazi per la comunità. In mostra ci sono i disegni fatti dai bambini con l’artista Husni Bey, che richiamano le esperienze di Riccardo Dalisi a Napoli di mezzo secolo fa. Nella città vecchia di Taranto, il gruppo Postdisaster, Silvia Calderoni e Ilenia Caleo hanno occupato i tetti con performance collettive.
A Ripa Teatina, in Abruzzo, la rovina dell’incompiuto ospedale ha suggerito una manovra di accerchiamento. Non potendo demolirlo né abitarlo, gli architetti HPO con la scrittrice Durastanti hanno inventato un percorso ad anello con scavi simbolici (un cumulo di terra è in Biennale). I gruppi Parasite 2.0 e Brain Dead aggiornano un’esperienza già virtuosa: da anni la facciata della Chiesa di Gesù Divino Lavoratore a Marghera funziona come parete per l’arrampicata, promuovendo condivisione e dialogo. E infine, nella Piana Firenze-Prato-Pistoia, Captcha Architecture, (ab)Normal ed Emilio Vavarella hanno inventato un «belvedere digitale» al Centro Pecci di Prato e, a Venezia, un diorama di vasi, pallet e decorazioni in polistirolo.
A queste installazioni, l’allestimento si rifiuta di aggiungere altro. Rispetto alle scorse edizioni, più affollate di contenuti, il Padiglione Italia 2023 presenta quindi un palinsesto visivamente scarno, da leggere come parte evocativa di azioni concrete sul territorio. Il vuoto e la riduzione rispecchiano anche una condizione generazionale: i Fosbury (che sono under 40) e molti colleghi sono infatti millennials, allevati al culto delle archistar ma poi confrontatisi con crisi che ne hanno ridimensionato i sogni di gloria. La frustrazione, se c’è stata, si è trasformata in un nuovo approccio alla professione: alla dimensione produttiva ed epica dell’architettura si è affiancata quella curativa, per cui progettare è lenire, rimediare, rigenerare, proteggere, riappacificare, liberare, ascoltare. Talvolta senza disegnare. Certo, è una visione parziale dell’architettura, ma per questo spiccatamente politica, che talvolta – tra partecipazione, «animazione», performance, multidisciplinarietà e accenti su ritualità e dintorni – richiama le pratiche degli anni Settanta. Se le differenze da allora sono immani, si sente l’eco di una rinnovata tensione etica verso il ripensamento di obiettivi e gerarchie dell’architettura. Insomma un Padiglione che pare mezzo vuoto, e che invece si riempie di premesse e promesse stimolanti.
Padiglione Italia
Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri
A cura di Fosbury Architecture Venezia, Arsenale
Catalogo Humboldt Books, pagg. 366, € 32