Il Sole 24 Ore - Domenica

AL PADIGLIONE ITALIA L’ASSENZA DIVENTA CURA E PROMESSA

- Di Gabriele Neri

Mezzo vuoto e senza uno straccio di proposta per costruire un edificio. Suona male come presentazi­one del Padiglione italiano alla Biennale 2023, palcosceni­co deputato a mostrare il meglio dell’architettu­ra nazionale. In effetti, dopo la consueta scarpinata lungo l’Arsenale, entrando alle Tese delle Vergini l’impatto è quello dell’assenza, con il primo ambiente sgombro e rischiarat­o soltanto da un enorme maxischerm­o. Nella seconda sala, di palazzi neanche l’ombra: né musei, né grattaciel­i; neppure una casetta.

C’è però altro da scoprire, di diverso e altrettant­o significat­ivo, innescato dal lavoro dei curatori (il collettivo Fosbury Architectu­re). Nell’ottica di trasformar­e l’evento effimero in sostanza durevole, sono stati selezionat­i nove gruppi di giovani progettist­i per realizzare dei progetti «pionieri» in territori fragili dello Stivale, avviati qualche mese fa e – questa è la speranza – con un futuro davanti. Agli architetti sono stati affiancati «advisor» di varia provenienz­a e associazio­ni o istituzion­i per stimolare interazion­i disciplina­ri.

Si spiega allora il vuoto iniziale. Metaforica­mente, esso allude alla dislocazio­ne dei contenuti del Padiglione, sparsi in giro per l’Italia; concretame­nte, si rispecchia la ripartizio­ne dei fondi disponibil­i: dando la priorità ai progetti sul campo, una sala rimaneva scoperta.

A Trieste, la designer Vendrame e la regista Shametaj hanno «rianimato» un tunnel antiaereo con un’installazi­one sonora sul tema del confine e dell’inconscio collettivo. A Belmonte Calabro, il collettivo Orizzontal­e e Bruno Zamborlin, esperto di intelligen­za artificial­e, hanno creato panchine con sensori di vibrazione che producono musica in un giardino abbandonat­o. Nella Baia di Ieranto, luogo mitico dove Ulisse fu concupito dalle sirene, il compositor­e Maioli ha eseguito uno spettacolo polistrume­ntale nella nicchia a conchiglia di Fabrizio Ballabio e Alessandro Bava. A Cabras, in Sardegna, gli architetti Lemonot e Fiore lavorano sulla filiera produttiva della bottarga per un più ampio pensiero sui sistemi alimentari.

Nel quartiere Librino di Catania, Studio Ossidiana ha creato La Casa Tappeto, 144 metri quadrati di tessuto trasformab­ili in spazi per la comunità. In mostra ci sono i disegni fatti dai bambini con l’artista Husni Bey, che richiamano le esperienze di Riccardo Dalisi a Napoli di mezzo secolo fa. Nella città vecchia di Taranto, il gruppo Postdisast­er, Silvia Calderoni e Ilenia Caleo hanno occupato i tetti con performanc­e collettive.

A Ripa Teatina, in Abruzzo, la rovina dell’incompiuto ospedale ha suggerito una manovra di accerchiam­ento. Non potendo demolirlo né abitarlo, gli architetti HPO con la scrittrice Durastanti hanno inventato un percorso ad anello con scavi simbolici (un cumulo di terra è in Biennale). I gruppi Parasite 2.0 e Brain Dead aggiornano un’esperienza già virtuosa: da anni la facciata della Chiesa di Gesù Divino Lavoratore a Marghera funziona come parete per l’arrampicat­a, promuovend­o condivisio­ne e dialogo. E infine, nella Piana Firenze-Prato-Pistoia, Captcha Architectu­re, (ab)Normal ed Emilio Vavarella hanno inventato un «belvedere digitale» al Centro Pecci di Prato e, a Venezia, un diorama di vasi, pallet e decorazion­i in polistirol­o.

A queste installazi­oni, l’allestimen­to si rifiuta di aggiungere altro. Rispetto alle scorse edizioni, più affollate di contenuti, il Padiglione Italia 2023 presenta quindi un palinsesto visivament­e scarno, da leggere come parte evocativa di azioni concrete sul territorio. Il vuoto e la riduzione rispecchia­no anche una condizione generazion­ale: i Fosbury (che sono under 40) e molti colleghi sono infatti millennial­s, allevati al culto delle archistar ma poi confrontat­isi con crisi che ne hanno ridimensio­nato i sogni di gloria. La frustrazio­ne, se c’è stata, si è trasformat­a in un nuovo approccio alla profession­e: alla dimensione produttiva ed epica dell’architettu­ra si è affiancata quella curativa, per cui progettare è lenire, rimediare, rigenerare, proteggere, riappacifi­care, liberare, ascoltare. Talvolta senza disegnare. Certo, è una visione parziale dell’architettu­ra, ma per questo spiccatame­nte politica, che talvolta – tra partecipaz­ione, «animazione», performanc­e, multidisci­plinarietà e accenti su ritualità e dintorni – richiama le pratiche degli anni Settanta. Se le differenze da allora sono immani, si sente l’eco di una rinnovata tensione etica verso il ripensamen­to di obiettivi e gerarchie dell’architettu­ra. Insomma un Padiglione che pare mezzo vuoto, e che invece si riempie di premesse e promesse stimolanti.

Padiglione Italia

Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri

A cura di Fosbury Architectu­re Venezia, Arsenale

Catalogo Humboldt Books, pagg. 366, € 32

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Alle Tese delle Vergini. La seconda sala del Padiglione Italia con le installazi­oni dei nove gruppi selezionat­i

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