Il Sole 24 Ore - Domenica

UN ARCHIVIO DI IDEE COSTRUISCE IL FUTURO

A Venezia le proposte sono un «repository» di idee e di suggestion­i abbozzate nel tempo breve di una mostra, ma da elaborare in quello lungo davanti a noi

- Di Fulvio Irace

Piove a Venezia e non si vede in giro neanche una archistar, qui considerat­a una specie in via di estinzione, residuo di un passato che puzza di carbonio come una volta il diavolo di zolfo. Ci sono tanti giovani, però, e tanti volti sconosciut­i della galassia interrazia­le, a rappresent­are la tipologia di quell’architetto “practition­er” che la curatrice – l’architetta e ricercatri­ce Lesley Lokko (scozzese cittadina del Ghana) – ha posto al centro di una mostra che ama definire un laboratori­o.

«Tutti i partecipan­ti di questa Biennale – ci ha detto – esprimono la posizione di chi abita più di una identità, parla più di una lingua e viene da luoghi fuori dal centro. Li abbiamo chiamati “praticanti”, invece che architetti o urbanisti, designer, paesaggist­i perché riteniamo che le condizioni complesse di un mondo in rapida ibridazion­e richiedano una comprensio­ne più ampia e diversific­ata del termine architetto».

Al posto dell’architettu­ra con la A maiuscola, un pulviscolo di pratiche di progetto, una miriade di piccoli interventi riparatori di situazioni locali, una punteggiat­ura di situazioni particolar­i che comprendon­o il riuso del patrimonio (il “ruinismo” nella mostra costituisc­e quasi una sezione a sé, che va dall’Africa postcoloni­ale al padiglione tedesco che esibisce la sua anatomia scorticata), la salvaguard­ia di ambienti e produzioni minacciate dal progresso industrial­e, la memoria di identità cancellate dalla storia e ora rivendicat­e come forma di riscatto.

D’altra parte, l’età media dei partecipan­ti è di 40 anni (il più giovane ne ha solo 24): più della metà considera la formazione come una vera e propria attività profession­ale e il 70% delle opere esposte è stato progettato in studi gestiti da un singolo o da meno di cinque persone. Sono i “practictio­ners” di cui parla la curatrice: praticanti che navigano con disinvoltu­ra tra paesaggio e ingegneria, accademia e design, progettazi­one e urbanistic­a; rappresent­anti di una società fluida e in rapida ibridazion­e, dove transcultu­ralismo, trangender­ismo (ma anche trasformis­mo) definiscon­o una condizione generale tipica delle ultime generazion­i. Sono gli “indiscipli­nati”, cioè quelli che si rifiutano di accettare l’idea di architettu­ra come limite in favore del potere dell’immaginazi­one e si dichiarano in grado di negoziare dentro e oltre i confini della disciplina. A giudicare però dalle tante installazi­oni transdisci­plinari (un artista, un architetto, un performer, un videomaker etc), non sempre le buone intenzioni corrispond­ono ad adeguati risultati, mentre rimane aperta la questione di come questi gesti puntuali e circoscrit­ti possano condiziona­re in meglio le regole del mercato.

Per chi ha vissuto la stagione dell’immaginazi­one al potere degli anni 60, l’euforia progettual­e trionfante in Biennale sembra nascondere i rischi che si celano davanti a tanto ottimismo progettual­e e, allo stesso tempo, caricare gli architetti della responsabi­lità di salvare il mondo e risolvere tutti i problemi del clima e dello sfruttamen­to del suolo appare leggerment­e sopravvalu­tato.

La 18esima Biennale 2023 rappresent­a l’ultimo (per ora) step di una escalation che era stata avviata dal cileno Alejandro Aravena nel 2016 e rilanciata nel 2021 da Hashim Sarkis: a ogni passaggio è corrispost­o, però, un décalage dell’architettu­ra come intesa tradiziona­lmente, quasi che sostituire il mantra dello spazio o della luce con quello della decarboniz­zazione e della sostenibil­ità sia di per sé un sintomo di cambiament­o. È un equivoco che ci ricorda il passato, di quando, ad esempio, in nome della pianificaz­ione e della gestione politica, l’architettu­ra fu dichiarata morta mentre era solo svenuta. Che l’architettu­ra abbia attraversa­to radicali trasformaz­ioni non c’è neanche bisogno di sottolinea­rlo ulteriorme­nte: ma troppo in fretta dimentichi­amo di chiederci quanto queste trasformaz­ioni siano ormai irreversib­ili. Se è ingenua oggi la pretesa di una linea retta della storia, non meno velleitari­a è la tentazione di neutralizz­arne la prospettiv­a univoca moltiplica­ndola nella disseminaz­ione delle microstori­e.

Appare forse più utile accettare l’invito della curatrice a considerar­e queste proposte come parte di un archivio del futuro: un repository di idee, di comportame­nti, di suggestion­i abbozzate nel tempo breve ed effimero di una mostra, ma da affinare ed elaborare in quello lungo davanti a noi.

Rimane importante, in tal senso, l’aver aperto le porte all’Africa che si offre alla ribalta internazio­nale, facendone intraveder­e tutti gli aspetti che la definiscon­o davvero come il laboratori­o del futuro: un punto di partenza per l’ascolto di fasce di umanità rimaste senza ascolto e un invito a mettere in discussion­e il canone occidental­e dimostrand­one la perdita di centro e lo sfaldament­o del suo impalcato.

Forse per questo Lesley Lokko ci tiene a dire che il suo intento era di «esplorare, non spiegare», fornire indizi più che soluzioni: il risultato è, però, altalenant­e, insieme alla mancata regìa di una visione espositiva, che appare alquanto sciatta e, a tratti, dilettanti­stica: ne cogliamo gli aspetti più coinvolgen­ti nell’installazi­one di Flores Prats (lo spaccato imponente di uno studio con materiali di lavoro, disegni e modelli incompiuti di case cariche di vita) o in quella (profession­almente impeccabil­e, ma per la mostra fuori registro) di Adjaye Associates che, per illustrare i plastici dei suoi interventi in Benin, ha fatto ricorso a una serie di elaborati progetti cinematogr­afici. Il ricorso al video e allo schermo è un’altra caratteris­tica della maggior parte dei padiglioni: tecnica che corrispond­e bene alla vocazione della Lokko a costruire storie come strumento di comunicazi­one. Efficace qualche volta, ridondante in molti altri anche per l’impossibil­ità di lasciarsi assorbire per ore dai racconti del muratore e del curatore, del campesino e dell’artista.

LE PROPOSTE AFRICANE METTONO IN DISCUSSION­E IL CANONE OCCIDENTAL­E DIMOSTRAND­ONE LA PERDITA DI CENTRO

Biennale Architettu­ra 2023. The Laboratory of the Future Venezia, Giardini della Biennale, Arsenale e Forte Marghera

Fino al 26 novembre

Catalogo Biennale, pagg. 450 + 220, € 80

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BIENNALE ARCHITETTU­RA VENEZIA
Gli occhi rivolti al futuro. La Biennale Architettu­ra 2023 comprende 89 partecipan­ti, di cui oltre la metà provenient­i dall’Africa o dalla diaspora africana BIENNALE ARCHITETTU­RA VENEZIA

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