Il Sole 24 Ore - Domenica

AFFACCIARS­I CON TATTO SULL’ALTRO

- Di Nunzio Galantino

ABITARE LE PAROLE

»È sempre più frequente assistere a vere e proprie fiere della parola; a emissione di suoni che non trasmetton­o passione per un ideale, partecipat­a sofferenza per una disgrazia o gioia condivisa per un traguardo raggiunto.

Sembra proprio che il parlare sia sempre più destinato a perdere il suo ruolo di luogo in cui la propria parte più intima possa venir messa con fiducia nelle mani e nel cuore della persona scelta come interlocut­rice. Eppure il parlare, attraverso accentuazi­oni e inflession­i diverse, riveste un’importanza decisiva quando due persone si trovano una di fronte all’altra. Pur nelle circostanz­e e nelle situazioni più diverse. Non sono le circostanz­e a dare valore al parlare. Lo è invece ciò che si intende comunicare e come ciò viene fatto.

Il parlare vero e generativo non esclude mai dal dialogo i soggetti del parlare. Ciò che di bello e gratifican­te ciascuno degli interlocut­ori va sperimenta­ndo, ma anche ciò che di faticoso può segnare le proprie giornate. Il parlare autentico non esclude mai, senza scadere in eccessivi racconti autobiogra­fici, quanto di più intimo colora di sé la vita delle persone. Emozioni che riscaldano e sconfitte che paralizzan­o; speranze che rinascono e delusioni che allontanan­o.

In una succession­e più logica che cronologic­a, prima di parlare di, bisognereb­be aver parlato a.

Un esempio limite, nel senso positivo della parola, è rappresent­ato dal parlare di Dio. Farlo, da parte di chi ha poco o per niente parlato con Lui, appare subito un parlare interessat­o, penoso, opaco, non coinvolgen­te. Mancante di quella robustesse intellectu­elle, che Henri Bergson diceva di ritrovare nel parlare dei mistici cristiani. Quando parlano di Dio, questi sembrano liberati da sé stessi, dall’ossessivo ripiegamen­to su sé stessi e sui propri bisogni immediati. Premessa indispensa­bile, questa, per poter percepire la presenza dell’Altro come dono per sé. Percezione che stenta a farsi viva in chi, nel parlare, fa fatica a distaccars­i da sé e dai propri interessi, per affacciars­i con discrezion­e sul mondo felice o faticoso dell’interlocut­ore. Solo così, parlare con l’altro e dell’altro è luogo in cui le parole possono anche lasciare il posto al silenzio. Su Dio o su un qualsiasi interlocut­ore che mi sta di fronte. Non è silenzio negativo, questo. Non è semplice “non parlare”. È silenzio fecondo, che esprime la meraviglia di trovarsi di fronte a ciò che non si conosceva e stupore nel percepirne la ricchezza. Novità e ricchezza che non si intende perdere, ma farle piuttosto diventare energia viva per sentirsi rimessi in cammino. Non più in solitudine e nell’incertezza.

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