LA DIVINA CHE DOMINò HOLLYWOOD E SPARì
Torna la bella biografia di Robert Gottlieb sull’attrice svedese, con meravigliose fotografie. Dagli esordi in patria ai ruoli drammatici affidati dalle major, ai molti amori di donna timida e spaventata dal successo
La casa editrice Il castoro, brava e attiva soprattutto nel campo dello spettacolo, celebra i suoi trent’anni di vita pubblicando questo ricco volume accompagnato da foto bellissime, e dedicato a un personaggio che della storia del cinema è stato a lungo quasi un emblema...
Tra il 1925 e il 1941, per quasi vent’anni non qualsiasi, dopo una guerra mondiale, dentro a una “grande crisi” e già dentro a una Seconda guerra mondiale – la fama e il mito di Greta Garbo hanno dominato l’immaginario collettivo, nella parte del pianeta toccata dal cinema, in modi comparabili soltanto a quelli di Chaplin, anzi Charlot. E non è un caso che nessuno dei due abbia vinto un Oscar, se non quelli di rimedio dati “alla carriera”, ché le corporazioni hollywoodiane mal perdonavano l’eccezionalità, e non solo quella dei registi.
Non si direbbe che alla Garbo questo importasse molto, e questa perfetta biografia, un modello nel suo genere, dimostra abbondantemente una diversità che era anche superiorità.
“La Garbo” ebbe una forte coscienza del funzionamento della “società dello spettacolo” nei suoi anni di espansione, al tempo della “riproducibilità tecnica” delle opere d’arte, e anche di quelle di poca arte o non d’arte. La giovane attrice svedese lanciata a Stoccolma da Mauritz Stiller nella Saga di Gosta Berling e a Berlino da G. W. Pabst nel più che realistico La via senza gioia, fu subito catturata da Hollywood per diventarvi la diva numero uno, blandita e sfruttata dalla Metro Goldwyn Mayer, che era la meno libera delle case di produzione dette majors, quella che Stroheim, uno dei massimi registi cinematografici del muto e di sempre, troppo grande per quel sistema, chiamava sprezzantemente una “grande fabbrica di salsicce”.
Per quasi vent’anni “la Garbo” (e il riferimento era evidente, non solo in
Europa, era a “la Duse” o a “la Bernhardt”, morte tra il ’23 e il ’24 quando l’astro della giovane svedese stava spuntando) impose il suo volto in storie e in ruoli sempre drammatici e altamente romantici, da Anna Karenina a Mata Hari a Margherita Gauthier... e impose il rispetto per la sua austera coscienza di una differenza che sembrava guardare dall’alto in basso al sistema hollywoodiano, al sistema dello spettacolo. Più che di autoironia, Gottlieb parla di una sorta di timidezza, e di una forte volontà di capire il mondo – si vedano le sue frequentazioni, e certi amori mai dettati soltanto dall’eros – e la sua europea distanza dal bailamme “americano” la spingevano a una differenza ostinata, a voler essere prima che apparire.
Non fu un caso che incontrasse sulla strada anche il nostro Pirandello, per un film tratto da Come tu mi vuoi, ispirato alla famosa storia dello “smemorato di Collegno”. È evidente, in questa “vita”, il suo sforzo, la sua fatica di essere, una certa distanza dall’ossessione dell’apparire che era peraltro il segno del suo successo hollywoodiano. Personaggio malgrado e per sottrazione, al contrario delle sue rivali Dietrich e Crawford; quest’ultima, con la Hepburn e la Davis e la Stanwyck e la Colbert e la Dunne, decisamente figlie della nuova società, emblemi di una assoluta