IL (VERO) LEADER E LE SUE TRAVERSATE NEL DESERTO
Le liberaldemocrazie sono minoranza nel mondo e arretrano. La contemporaneità guerresca accentua la sfida tra autocrazie e democrazie. Le ragioni morali della scelta radicata nel modello classico occidentale (e non solo) faticano a confermare quel successo efficiente per la gestione della cosa pubblica che immaginavamo scontato. È un problema di leadership, di tempo per l’esercizio del potere di guida e di caratura delle personalità impegnate via via in politica.
Lo spiega Antonio Funiciello in Leader per forza. Storie di leadership che attraversano i deserti, un testo per certi versi nostalgico rispetto a personalità difficili da ritrovare, ma proiettato nell’analisi di un presente di transizione da un ordine mondiale a un altro in cui la leadership diventa cruciale.
Il suo ruolo di capo di gabinetto, prima del premier Paolo Gentiloni poi di Mario Draghi, garantisce come la lettura del libro offra punti di osservazione di chi la materia la conosce e soprattutto la vive. E la studia come già aveva fatto nel precedente volume Il metodo Machiavelli dove ha analizzato ruolo e funzione dei moderni consiglieri del principe.
È Mosè il primo dei ritratti proposti dall’autore: Mosè è colui che guida il popolo nella massima incertezza, per puro spirito di servizio e per amore di Dio, lontano da un’idea di gestione di puro potere. Semmai di potere puro. Funiciello lo usa come benchmark per significare la forza della «leadership trasformativa», l’unica che conti davvero. Quella di chi sa condurre i suoi seguaci da un punto A a un punto B della storia e nel contempo lascia un’eredità morale di valori e di prassi tramandata alle generazioni future.
Il condottiero suo malgrado, che non cerca la gloria, ma sa accettare le responsabilità e l’onere della guida di un popolo. Che non paga il tributo al narcisismo, tratto così distintivo dell’oggi dove molte leadership sono caricature. A cominciare dal fatto – ma questo non è scritto nel libro – che sono troppe le mezzecalze della politica che si autodefiniscono leader, mentre caratteristica principale della vera leadership è che viene definita e riconosciuta solo dai seguaci, dall’esterno.
Senza contare che esistono anche leadership conclamate ma irrisolte, orientate alla gestione emergenziale di un presente infinito, ma non in grado di avere un vero progetto sul futuro come è, vista adesso, quella di Angela Merkel, cui Funiciello dedica le pagine finali del libro.
La guida ideale sbozzata nel libro ha il senso della missione di Mosè, ma anche la capacità di adattamento al «gioco di sponda» di Cavour, maestro anche nella programmazione, la forza dell’ideale come Golda Meir, la capacità di agire, se necessario e nobile, anche ai limiti della legge come Lincoln o la difficile arte di saper delegare come seppe fare Truman con il piano Marshall. Ancora la capacità di «imparare» a diventare una guida di un popolo come lo stesso Mosè, ma anche come Vaclav Havel fedele alla sua diversa idea di mondo, profeta mite e immaginifico rispetto al plumbeo codice del regime. Sopra tutto conta la mitica predisposizione a non odiare i tuoi carnefici, ma anzi a trasformarli in partner per la pace e la prosperità del popolo: è l’eredità di Nelson Mandela che Funiciello si sforza di raccontare nella sua utilità contingente, nella sua pragmatica capacità di adattamento. Meno mitologia e più politica, ma proprio per questo la storia di Madiba diventa ancora più straordinaria.
Naturalmente non poteva mancare Mario Draghi di cui Funiciello traccia le linee di marcatura della sua riconosciuta capacità di leadership. Il metodo innanzitutto: non scoprire la propria posizione in avvio di discussione, massima attenzione al confronto delle idee dei consiglieri, scelta di una soluzione che diventa la missione con la consapevolezza che ogni scelta è un atto di per sé parziale di cui si porta la responsabilità. Era anche il metodo Ciampi, così come raccontato da lui stesso, e la scuola è quella della Banca d’Italia, fucina di servitori dello Stato.
Il Draghi di Funiciello è anche un po’ Cavour nella capacità di giocare di sponda. Come accadde ad esempio per il viaggio a Kiev con Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Era italiana la posizione mediana che proponeva l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea, ma non nella Nato. Era stata preparata con l’aiuto francese per almeno due mesi prima del viaggio e doveva superare le rigidità della posizione tedesca. Alla fine, durante i colloqui in Ucraina, Draghi avvia la discussione con Volodymyr Zelensky e poi tace a lungo. Il dibattito si sviluppa in modo che siano Scholz e Macron a sentirsi propugnatori dell’accordo sul sì alla Ue e no alla Nato. A Draghi interessa il risultato e, soprattutto, che quella missione dia il tono e il segno di una presenza collettiva di un’Europa tangibile e riconoscibile. Un brocardo della Prima Repubblica recitava che vincere è un po’ perdere. E l’ex premier deve averlo ricordato.
I leader hanno carattere e soprattutto visione perché sanno pensare in maniera creativa e diagnostica insieme. Vedono ciò che i follower in genere non colgono. E per rendere questa affermazione plastica Funiciello riporta l’aneddoto di Draghi che, appena insediato a Palazzo Chigi, gli chiede se avesse notato i molti orologi antichi sparsi nei vari saloni. L’interlocutore si affanna in una risposta: «Sono francesi». «Si ma sono tutti rotti» è la controdeduzione del premier che chiude con una secco: «Ripariamoli» (ndr al Quirinale non sarebbe accaduto perché lì i 200 orologi antichi sono tutti funzionanti e accuditi quotidianamente da un esperto orologiaio).
La leadership dunque presuppone un campo visivo diverso e un’idea simbolica e consapevole della scarsità del tempo e dell’urgenza dell’azione. Ma non è mai cosa per l’uomo o la donna soli al comando.
Antonio Funiciello Leader per forza.
Storie di leadership che attraversano i deserti Rizzoli, pagg. 300, € 18