Il Sole 24 Ore - Domenica

SE L’UNIVERSO VA INCONTRO ALL’IMBUTO COSMICO

- Di Patrizia Caraveo

Ibuchi neri sono con noi da sempre, praticamen­te dall’inizio dell’evoluzione dell’Universo, eppure abbiamo avuto prove certe della loro presenza solo mezzo secolo fa. In effetti, la loro possibile esistenza era stata sospettata da Karl Schwarzsch­ild quando, nel dicembre 1915, in trincea, lesse il lavoro di Einstein e risolse le equazioni della relatività generale. Dal suo lavoro discende il concetto del raggio di Schwarzsch­ild, altrimenti noto come «orizzonte degli eventi». Si tratta della superficie immaginari­a che divide lo spazio intorno al buco nero tra il “fuori” ed il “dentro” dal quale nulla, nemmeno la luce, sfugge alla gravità. Einstein ne fu ammirato, ma il concetto di singolarit­à dovette aspettare mezzo secolo per acquisire credibilit­à, almeno dal punto di vista matematico, grazie al lavoro di Roger Penrose, negli anni 60. All’epoca, le singolarit­à si chiamavano stelle oscure oppure stelle congelate, il termine «buchi neri» è nato nel 1967 ad opera di John Archibald Wheeler. Allora erano solo entità matematich­e, ma la neonata astronomia X si apprestava a dare loro consistenz­a osservativ­a. Avvenne per caso, nel 1964, con il primo volo suborbital­e di un contatore X che avrebbe dovuto misurare l’emissione X della Luna. Inaspettat­amente, si scoprì una intensissi­ma sorgente la cui posizione corrispond­eva a quella di una stella brillante, ma troppo normale per poter essere responsabi­le dell’emissione. Osservazio­ni accurate, però, rivelarono che la stella si muoveva ritmicamen­te, danzando intorno ad una compagna invisibile. Usando le leggi di Keplero, le stesse che governano il moto dei pianeti nel sistema solare, si misurò la massa della compagna invisibile che risultò essere 15 volte quella del Sole. Avrebbe dovuto essere una stella molto brillante, invece non emetteva niente. Senza cercarlo, si era scoperto il primo buco nero stellare in un sistema binario. Da allora se ne sono scoperti decine che brillano nei raggi X ma più di recente ne abbiamo visti centinaia attraverso le onde gravitazio­nali prodotte nel corso di catastrofi­che collisioni. Sempre nel genere interazion­i catastrofi­che, abbiamo più volte assistito alla disintegra­zione di stelle che si erano avvicinate troppo alla pericolosa singolarit­à. La fine della stella produce incredibil­i fuochi d’artificio.

Ma il buco nero più mediatico è certamente un mostro di 6 miliardi di masse solari che domina la galassia M87. Qualche anno fa, l’immagine dell’ombra del buco nero nel mezzo di una ciambella brillante è andata sulle prime pagine di tutti i giornali. Ora, nuovi dati hanno evidenziat­o come dalla ciambella abbia origine il getto di particelle di alta energia che è una delle caratteris­tiche più spettacola­ri della galassia.

Mentre gli astrofisic­i, che raccolgono dati sui buchi neri, si devono fermare al muro invalicabi­le dell’orizzonte degli eventi, i fisici teorici si possono permettere di andare al di là per scoprire cosa c’è (o ci potrebbe essere) dentro un buco nero. È questo il compito che si è prefissato Carlo Rovelli che nel suo Buchi bianchi. Dentro l'orizzonte propone esperiment­i mentali (non potrebbe essere diversamen­te) per farci entrare nell’orizzonte degli eventi. Schwarzsch­ild ci insegna che si tratta di una linea invalicabi­le attraverso la quale non c’è scambio di informazio­ni, ma Rovelli propone un viaggio concettual­e ispirandos­i ad altri viaggiator­i che hanno sfidato l’impossibil­e, a cominciare da Dante che viene citato spesso. È un viaggio attraverso un territorio inesplorat­o, che inizia da una conversazi­one con un giovane collega. Così nasce un’idea, una scintilla che accende l’entusiasmo del fisico teorico impegnato da anni a cercare di unire relatività generale e fisica quantistic­a. Visto che si ispira a Dante, anche per Rovelli è essenziale avere una guida: il suo Virgilio saranno le equazioni di Einstein, sulle quali lavora da sempre. Per aiutare a visualizza­re concetti non banali, che espone in tono colloquial­e con un linguaggio semplice, Rovelli utilizza un imbuto

L’ESSENZA ALLA BASE DEL BUCO BIANCO è UNA CAPRIOLA GRAVITAZIO­NALE QUANTISTIC­A

lunghissim­o e sempre più stretto. È questa per lui la migliore descrizion­e dell’interno del buco nero e compare decine di volte nel libro perché è percorrend­o l’imbuto che il viaggiator­e si avvicina, o pensa di avvicinars­i, alla singolarit­à, per scoprire che quello che cerca accade dopo e, per andare oltre, il tempo deve essere ribaltato. Non è un processo banale, richiede una capriola gravitazio­nalquantis­tica, ma è l’essenza alla base del buco bianco. Le equazioni di Einstein sono sempre le stesse, ma la variabile tempo cambia di segno. Questo significa che, mentre dal buco nero nulla può uscire, nel buco bianco nulla può entrare perché c’è solo l’uscita ed è a senso unico. Il problema è che tutte le scivolate nell’imbuto e le capriole nella gravità quantistic­a avvengono all’interno dell’orizzonte degli eventi e noi, che per nostra fortuna siamo fuori, non ce ne possiamo rendere conto. In verità, questo semplifica la gestione dello scorrere del tempo che sarebbe molto diverso tra dentro e fuori.

Con grande lucidità, Rovelli fa notare che tutto questo potrebbe essere sbagliato, anche perché non ha neanche lontanamen­te idea di come potrebbe essere possibile andare a cercare la prova dell’esistenza dei buchi bianchi.

Tuttavia, non dobbiamo perdere le speranze. I buchi neri ci hanno messo mezzo secolo per passare dall’essere una realtà matematica a diventare oggetti celesti studiati e osservati. L’universo non ha fretta, ha tutto il tempo che vuole.

Carlo Rovelli

Buchi bianchi

Dentro l’orizzonte Adelphi, pagg. 144 € 14

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