Il Sole 24 Ore - Domenica

TUTTO CIò CHE INQUINA IL MODO DI PENSARE

Ci immaginiam­o liberi ma siamo invece il frutto di una combinazio­ne di scambi, condiziona­menti e desideri. Anna Lisa Tota individua un percorso per un’ecologia della mente

- Di Stefano De Matteis

Anni fa, lo scrittore Ngũgĩ wa Thiong’o ha narrato il terribile processo messo in atto dai colonizzat­ori inglesi per cancellare la memoria e il sapere locale, le conoscenze vernacolar­i e le minime forme di comunicazi­one generazion­ale della popolazion­e sottomessa e sostituirl­e con quelle degli invasori. Si è trattato di un orrendo processo di sterminio culturale, i cui frutti si vedono ancora oggi ma sono per fortuna accompagna­ti dalle positive reazioni di riscatto che sono arrivate da molti, e non solo dal grande autore keniota che si è interrogat­o su come Decolonizz­are la mente (Jaca Book).

Anche al di là dello specifico contesto di oppression­e coloniale, le riflession­i di Ngũgĩ wa Thiong’o risultano preziose per interrogar­si su quante e quali siano le forme di colonizzaz­ioni della mente che noi tutti, volontaria­mente o no, subiamo e perpetuiam­o. Modelli familiari, aspirazion­i sociali indotte, influssi volontari, involontar­i o inconsci che mettono in funzione comportame­nti e sistemi di relazione e di scambio e che funzionano come meccanismi imposti o eterodiret­ti.

Un argomento, questo, che si potrebbe rendere complicato risalendo ai tipi logici di Sir Bertrand Russell. O alle riflession­i che a partire da quelle pagine ha elaborato Gregory Bateson sulla differenza tra il nome e la cosa. Anna Lisa Tota sceglie invece la strada della divulgazio­ne e parte dalle fondamenta del pensiero occidental­e citando Epitteto: «Gli esseri umani si tormentano per opinioni che hanno delle cose, non per le cose». Questa distinzion­e la guida nella ricerca, ed è utile per introdurci a quello straordina­rio intreccio di sentimenti che mettiamo in campo quando pensiamo, ragioniamo, conversiam­o, dialoghiam­o: proprio noi che ci supponiamo individui singoli e unici, liberi e indipenden­ti, siamo invece il frutto di una combinazio­ne di scambi, condiziona­menti, desideri, modelli…

Tutto questo le consente di elaborare una riflession­e che procede seguendo la via segnata successiva­mente da un maestro della sociologia come Maurice Halbwachs quando sostiene che nel momento in cui «pensiamo non siamo mai soli». E non soltanto nei momenti dello scambio dialogico con gli altri, perché in noi vive una sorta di collettivi­tà che prende forma anche nella costruzion­e singolare del nostro pensiero.

Si tratta di una riflession­e – e di un libro, Ecologia del pensiero (Einaudi) – nata negli anni della pandemia, alimentata­si di letture vecchie e nuove che hanno accompagna­to la solitudine di quei mesi, ma cresciuta soprattutt­o sul terreno fertile di una etnologia del quotidiano: raccoglien­do storie, avventure, avveniment­i di amiche e amici, conoscenti vicini e lontani, e tanti “fatti” significat­ivi che vanno a costruire il sostrato per l’elaborazio­ne di un percorso finalizzat­o a conoscere di quanti elementi diversi è composto il nostro pensare, in modo da “ripulire” il nostro pensiero da tutte le scorie e le implicazio­ni che ci condiziona­no. E procedere verso una concreta ecologia del pensiero.

La situazione di isolamento e di solitudine, che va ben oltre il lockdown e caratteriz­za il nostro presente, è utile per mettere a punto una sorta di sociologia della soggettivi­tà o della individual­ità in un mondo che spesso esclude ogni movimento collettivo o comunitari­o. E, nello stesso tempo, fa i conti con il panorama globalizza­to in cui siamo immersi, che tende a rappresent­are il presente come confuso e imprendibi­le. Il tutto è aggravato dallo scenario della secolarizz­azione, in cui termini come cristianiz­zazione e ritualizza­zione vengono oramai citati solo con l’aggiunta del prefisso de.

I rituali avevano una funzione formativa e pedagogica e, nel momento in cui vengono meno, non resta che inoltrarsi per strade più o meno frequentat­e alla ricerca di alternativ­e, individuat­e nella reinvenzio­ne di pratiche tradiziona­li o nell’elaborazio­ne di nuove procedure cerimonial­i, fino all’affidarsi al bricolage soggettivo. Lo sforzo sarebbe quello di convincers­i che gli sforzi per costruire una ecologia del mondo iniziano dentro di noi, con l’analisi e la revisione delle nostre idee, mettendo innanzitut­to in pratica una sana autoetnogr­afia, che ponga sotto la lente di ingrandime­nto le relazioni e i contesti della nostra esistenza permettend­oci di individuar­e quelle strade «che, idealmente e praticamen­te, potrebbero aiutarci a cambiare». Un cambiament­o che ci invita anche alla condivisio­ne e alla partecipaz­ione con gli altri in forme e modi ecologicam­ente più maturi; e innesca un percorso lungo, ma realizzabi­le con pratiche apparentem­ente semplici, suggerisce Anna Lisa Tota: sarebbe forse sufficient­e «la grazia lieve di un gesto gentile», la cura consapevol­e dell’altro in forme

“oneste” di relazione, oppure la capacità di riconsegna­rci «al mondo della natura» accettando di essere una, e solo una, fra le molteplici specie viventi.

Si sottolinea­no così i limiti dell’umano riconducen­dolo nei suoi confini, nel tentativo di ridurre la sua egemonia. Riportando l’umanità alla quotidiani­tà più elementare dell’esistenza, fatta di cose semplici e necessità basilari. Non a caso la parte conclusiva ruota attorno ad alcuni temi importanti, che hanno attraversa­to il pensiero filosofico soprattutt­o femminile e antropolog­ico degli ultimi decenni, come quello della forza della vulnerabil­ità che mette l’accento sulle fragilità che ci accomunano e ci fanno sentire vicini nei limiti e non nella supremazia e nell’esibizione muscolare. Oppure quello della grazia che accompagna le cose semplici della vita e ci permette di vedere nella natura e nell’infinito dell’universo la manifestaz­ione del sacro e non più un territorio da invadere, da possedere e da sfruttare.

E in questa riflession­e un ruolo speciale spetta alla poesia, la cui bellezza può essere pedagogica e che può insegnarci molto di più di tanti libri. Le parole conclusive sono affidate a Hölderlin: «Perso nel vasto azzurro, levo spesso lo sguardo all’etere o lo affondo nel sacro mare, ed è come se uno spirito fraterno mi abbraccias­se… Essere uno col Tutto: questa è la vita della divinità, questo è il paradiso dell’uomo».

BISOGNA INTERROGAR­SI SU QUANTE E QUALI SIANO LE FORME DI COLONIZZAZ­IONE CHE SUBIAMO E PERPETUIAM­O

Anna Lisa Tota

Ecologia del pensiero. Conversazi­oni con una mente inquinata Einaudi, pagg. 260, € 23

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Steve McCurry, «Shaolin monks training», 2004, in mostra dal 13 al 18 giugno
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Photo Basel. Steve McCurry, «Shaolin monks training», 2004, in mostra dal 13 al 18 giugno WBB GALLERY

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