IL LABIRINTO DI CNOSSO E LA SUA VERITà
La rassegna all’Ashmolean Museum illustra l’opera di Sir Evans con taccuini e mappe e allarga lo studio dell’area oltre la vita del Palazzo, dal IX millennio a.C. all’VIII secolo d.C.
Il sito di Cnosso rappresenta una delle maggiori avventure dell’archeologia europea. L’Inghilterra, che patrocinò gli scavi oltre un secolo fa, scalzando non senza slealtà le iniziative locali, solo oggi ne dà conto in una mostra all’Ashmolean Museum di Oxford, che si chiuderà il 30 luglio prossimo. Il titolo, Labyrinth: Knossos, Myth & Reality, assembra con dissimulante astuzia i termini di una questione tutt’altro che pacifica. Infatti, il palazzo che l’allora direttore dell’Ashmolean Museum, Arthur Evans, portò in parte alla luce va considerato per davvero un labirinto? E, se sì, va identificato per certo con il labirinto del Minotauro, il mostro biforme che divorava i giovinetti ateniesi, come Evans pretese?
Ritengo che al termine “reality” sarebbe stato più corretto, sotto ogni punto di vista, preferire “truth”, cioè “verità”, poiché la Cnosso di Evans è frutto di numerose falsificazioni, vuoi per il temperamento dell’uomo vuoi per le tendenze imperialistiche del suo Paese, dalla destinazione degli ambienti alla forma del palazzo (ripensato come una magione rinascimentale) ai restauri e alla lettura degli affreschi. Con l’ambiguo termine “myth”, d’altra parte, il curatore Andrew Shapland sembra voler pronunciare una critica per tutti coloro che hanno orecchio per intendere: come esiste il mito antico, così esiste il mito moderno, cioè la fantasia che Evans ha creato e propagandato con successo, e da cui ancora non siamo usciti del tutto.
Chi supera i cancelli di Cnosso oggi è invitato a diffidare deldato l’aspetto delle rovine da un sistema di diplomatici cartelli, di cui, va detto, la stragrande maggioranza dei visitatori (nei mesi estivi se ne contano fino a cinquemila al giorno) nemmeno si accorge. Similmente chi si aggira per la mostra oxoniense può acquistare, se vuole, una certa libertà di giudizio grazie a didascalie come la seguente (traduco): «Cominciati gli scavi nel 1900, Sir Arthur Evans si chiese con quali restauri conservare l’edificio. La Sala del Trono richiese una rapida copertura che proteggesse i delicati affreschi delle pareti. Il Grande Scalone crollò a seguito delle forti piogge e dovette esser ricostruito. Con il tempo i restauri diventarono sempre più ambiziosi, aiutati da una nuova invenzione: il cemento armato. Oltre a proteggere il sito, Evans voleva ridare vita al Palazzo. Le sue squadre di artisti riempirono inventivamente intere porzioni di affreschi danneggiati. Gli architetti eressero sezioni del Palazzo sui frammenti ed è ormai difficile distinguere i resti autentici dell’Età del Bronzo dalle ricostruzioni». Con squisita retorica inglese, senza rampognare e senza gridare allo scandalo, queste righe denunciano un vero e proprio disastro.
La mostra, però, non è né sarebbe potuta essere – data la sede e il prestigio del personaggio – un atto di condanna.
Chi l’ha organizzata mirava, piuttosto, a illustrare l’opera di Evans attraverso l’esposizione di pezzi del suo archivio (taccuini, disegni, mappe) e a collocare Cnosso in una durée che non fosse solo quella del Palazzo, sorto verso il 1900 e distrutto intorno al 1350 a.C. La parte più originale è proprio quella che informa, in chiusura, sugli scavi più recenti, spingendo all’indietro fino al nono millennio a.C. la storia dell’area e prolungandola fino all’VIII secolo d.C.; e avanza l’ipotesi, vertice didattico del percorso espositivo, che i meravigliosi cretesi di Evans fossero dediti ai sacrifici umani. Non saranno stati, allora, i sacrifici umani la radice della storia del Minotauro? Chissà… Anche quest’ipotesi, temo, sa di favola, e la favola dispiace tanto di più perché propone un ultimo argomento con cui condonare a Evans le sue contraffazioni antifilologiche, accordandole alle più recenti e senza dubbio più responsabili ricerche.
Non mancano, in apertura, materiali iconografici sul tema del labirinto, uno degli archetipi più diffusi della nostra cultura, dall’antichità (risale fino alla civiltà egizia, con la quale la civiltà cretese dimostra di aver avuto significativi contatti; il termine stesso “labirinto”, registrato per la prima volta in Erodoto, si riferisce appunto a un complesso edificio egizio) al Medioevo (la cattedrale di Chartres ha il disegno di un labirinto sul pavimento) alla modernità alla nostra stessa contemporaneità (come provano le opere di vari artisti e, aggiungerei, scrittori – un nome irrinunciabile quello di Borges, chissà perché trascurato); e, nella parte centrale, alcuni campioni dell’arte cretese, che Evans ribattezzò, in onore del mitico Minosse, “minoica”, come alcuni vasi del Museo di Iraklion (uno dei musei più belli del mondo).
Il catalogo, curato da Andrew Shapland, fornisce un’accurata narrazione della vicenda archeologica, seguendo i temi della mostra, anzi, rivelandosi un luogo assai più idoneo didatticamente, per le maggiori possibilità di informazione, delle stesse sale dell’Ashmolean Museum, come prova il secondo capitolo interamente dedicato al tema del labirinto. Ottimo il corredo di immagini, tra cui spiccano le riproduzioni di antichi labirinti, come quelle di certe monete cretesi.
Non mi sento di affermare che Labyrinth: Knossos, Myth & Reality sia una mostra riuscita. Troppe ragioni antitetiche si sforzano di accomodarvisi senza aver l’aria di escludersi a vicenda. La trovo, tutto sommato, una mostra ipocrita e timida. Non si può negare, tuttavia, che costituisca un primo tentativo di de-costruzione anti-evansiana su suolo britannico. Non era facile provarci, e non era facile riuscirci completamente. Quel che il curatore e il suo gruppo sono riusciti a comunicare è senz’altro utile e merita considerazione.
ALLA MOSTRA VA RICONOSCIUTO DI ESSERE UN PRIMO TENTATIVO DI DE-COSTRUZIONE ANTI-EVANSIANA SU SUOLO BRITANNICO
Labyrinth:
Knossos, Myth & Reality Oxford, Ashmolean Museum Fino al 30 luglio
Catalogo Ashmolean Museum, pagg. 256, £ 25