OMBRE SPETTRALI SULLE PAROLE
In mostra le 348 illustrazioni che Léon Spilliaert realizzò per il «Théâtre» di Maurice Maeterlinck: vere «opere al nero» tra il detto e l’ineffabile in cui la china traccia intorno ai caratteri tipografici una tela di ragno
Nel 1902, il ventenne Stefan Zweig scrisse per una rivista di Stoccarda il primo dei suoi brillantissimi reportage di viaggio dedicandolo a Ostenda, la stazione balneare belga, la più scintillante in tutto il Nord Europa. Vi si legge di corse in automobile, di riti mondani nel tempio del Kursaal, delle principesse vere e delle principesse del varieté, delle passeggiate sulla digue fronteggiante il mare.
Negli stessi anni, un giovane usciva silenzioso di casa la notte e perlustrava la cittadina svuotata, le strade senz’anima viva, la macchia paurosa delle acque infinite. Passeggiava per ore cercando un rifugio dall’insonnia, si spostava furtivo e inquieto come una nottola e il suo sguardo incamerava le mille screziature del nero, la caligine luminosa dei lampioni, la fuga di palazzi e colonnati sulla digue, la vertigine della solitudine. Quando rientrava, al mattino, fissava quelle immagini sulla carta con l’inchiostro di china e l’acquerello: una pullulante topografia della desolazione, di cui era suscitatore e interprete.
L’adolescenza e la giovinezza di Léon Spilliaert (1881-1946) si svolgono sotto il segno di Saturno, sono segnate dal lutto, dalla sofferenza e dalla depressione. La profumeria del padre, da cui uscivano bellissimi flaconi che torneranno nella sua opera grafica, lo aveva iniziato presto alle sensazioni sottili e preziose. L’indole e l’orgoglio lo separavano dagli altri e ingigantivano i fantasmi dell’angoscia, cui il pennello donerà una fisionomia originalissima. Era sostanzialmente un autodidatta, orgoglioso di esserlo. La sua opera si stratificava senza che nessuno lo sapesse, fino a quando l’incontro con Edmond Deman, nel 1902 a Bruxelles, non proiettò Spilliaert al centro della vitalissima cultura letteraria e pittorica del Belgio simbolista. Nel 1904 già esponeva a Parigi, alla galleria Clovis Sabot, insieme con Picasso.
Deman era un editore brussellese la cui passione artistica e il cui gusto di bibliofilo esperto aggregavano le più vivaci eccellenze di un mondo non meno unitario che ramificato in una varietà stupefacente di talenti. Da Wiertz in poi, attraverso Mellery, Rops, Khnopff, Ensor (anch’egli di Ostenda), van Rysselberghe, Delville, Minne, Schlobach, l’immaginario pittorico si era rispecchiato in una letteratura (Rodenbach, Maeterlinck, Verhaeren, Crommelynck) che privilegiava anch’essa i temi della decadenza, del disorientamento e della sua provvisoria cura attraverso l’estetismo, dell’inafferrabile e dell’inconoscibile, della vita come sogno o più spesso incubo, del rispecchiamento dell’eros nella morte. Edmond Deman accolse Spilliaert in quella cerchia, ne plasmò l’identità di lettore mai sazio e aiutò il talento pittorico a svilupparsi proprio nel rapporto con la letteratura simbolista. L’esempio massimo di tale rapporto si ha con un unicum editoriale intorno al quale si compone la mostra ora visitabile a Bruxelles.
Si tratta dei tre volumi che raccolgono il Théâtre di Maurice Maeterlinck, stampati in 110 copie da Deman e dei quali l’esemplare personale dell’editore era stato affidato a Spilliaert perché lo adornasse col suo pennello. Entrata l’anno scorso nel forziere dei Musées royaux, l’opera viene esposta insieme con alcuni fogli autonomi che riprendono lo stesso tema e con una scelta delle opere giovanili dell’artista di Ostenda. Mostra di grande interesse, ma la prossima volta, s’il vous plaît, si adottino vetri antiriflesso.
Forse l’unico paragone possibile è con la Brahms-Phantasie di Max Klinger (1894), nella quale l’incisione si interseca con i testi dei Lieder brahmsiani e con gli stessi pentagrammi. Spilliaert va ancora oltre: in 348 illustrazioni, un’autentica opera al nero, entra nel testo stampato, allunga le proprie ombre spettrali imponendo alle parole un’anamorfosi che ne spreme il senso più segreto, arabesca con la china tracciando intorno ai caratteri tipografici una tela di ragno, capovolgendo i chiaroscuri del verbo e spingendosi su quel confine tra il detto e l’ineffabile che proprio del teatro di
Maeterlinck è specifico. E dando forma visiva alle presenze sonnambuliche che abitano i drammi: le figure nere e allungate il cui silenzio è una forma di cordoglio; le donne trasformate da femmes fatales in parche che filano destini senza senso o in maschere dell’attesa, ritratte di schiena mentre si sporgono sulle cavità assenti del mare e del nulla; le ombre smarrite dai loro titolari e vagolanti senza mèta; l’eterno enigma degli alberi, che nella produzione di Spilliaert diverranno, con gli anni, icone sempre più importanti.
Dell’enigma, del silenzio e dell’assenza, ma anche dell’interrogazione identitaria, scaturigine di una serie di impressionanti autoritratti, Spilliaert resta un interprete da riscoprire. Per paradosso sono le stagioni della giovinezza quelle che si risolvono in una sintesi geniale. Il pittore vivrà poi a lungo, placherà negli affetti famigliari il suo eremitaggio, accoglierà nel microcosmo figurativo la ricchezza e la luce del colore, già castigato dall’inchiostro nero, conoscerà un certo successo e non saprà più rinnovare la tenebrosa magìa dei primi anni. In un documentario di Henri Storck, un altro figlio di Ostenda che alla propria città ha dedicato cortometraggi meravigliosi, si vede Spilliaert ormai vecchio, mentre chiacchiera tranquillamente con un gruppo di amici in giardino; vicino a lui il torso nudo e angoloso di Paul Delvaux. Nulla più tradisce, in quel volto che tante volte si dovette guardare nello specchio dell’orrore, l’angoscia che aveva abitato e acceso la sua arte.
Léon Spilliaert. Les débuts Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique Fino al 3 settembre