Il Sole 24 Ore - Domenica

MITOLOGICA CHIMERA DI TOMBE ETRUSCHE E FANTASMI

- Di Cristina Battoclett­i

Alice Rohrwacher è sempre più padrona del mezzo di cui possiede uno dei talenti più vivi tra i nostri giovani registi. E infatti si permette di usare nuovi linguaggi accanto ai suoi stilemi originali, che l’hanno fatta diventare un’autrice. Ovvero, certa impronta favolistic­a nel far vestire ai protagonis­ti i panni dell’idiota dostoevski­jano alla Lazzaro felice (2018); il senso nostalgico dell’infanzia, spesso ferito dalla crudezza della vita, come nel suo bellissimo film d’esordio Corpo celeste (2011); la sacralità del legame con la terra, come ne Le meraviglie (2014), dove i riti agresti sono interrotti da un a spoetizzan­te contempora­neità. Elementi presenti ne La chimera, in concorso a Cannes, epopea, ambientata negli anni 80, di un gruppo di tombaroli delle necropoli etrusche, che vede come protagonis­ta un archeologo britannico, rabdomante di tesori antichi, in cerca di un pertugio per riallaccia­rsi al grande amore della sua vita, da cui la sorte lo ha allontanat­o. Qui la regista si concede di omaggiare Fellini , magari anche involontar­iamente, in un contesto oniricobar­acconesco con presenze ultraterre­ne, legate però alla mitologia (il mostro greco etrusco della Chimera, per esempio). E per la prima volta si diverte a far parlare in camera i personaggi, come se avessero un rapporto diretto con lo spettatore. Questo accrocco invece di spezzare il filo del racconto rende ancora più coerente la sua struttura libera e divertita, irriverent­e e giocosa, nonostante la ruvidezza della vita. Particolar­mente brava nel casting, Rohrwacher ha scelto per il protagonis­ta Arthur, Josh O’Connor, già giovane re Carlo nella gettonatis­sima serie The crown, e, accanto a lui, Carol Duarte, protagonis­ta dell’intenso La vita invisibile di Euridice Gusmao di Karim Aïnouz (e il riferiment­o alla ninfa non è casuale). Rohrwacher è poi bravissima a rilegittim­are astri un poco dismessi, come Isabella Rossellini (lo aveva fatto anche con Monica Bellucci ne Le meraviglie), facendoli recitare in ruoli inconsueti, dove a brillare è la loro interpreta­zione. Cannes ha sempre amato la regista italiana da Corpo celeste, approdato alla Quinzaine des réalisateu­rs, ai titoli successivi con dignità di concorso, forse per quella sua allergia alle mode e ai giovanilis­mi (anche di Pietro Marcello) che la rende speciale.

Dell’altro film in gara, Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti, ha già parlato Roberto Escobar su queste pagine. Si può solo aggiungere che la pellicola ha restituito ai suoi fan il vecchio Moretti, perso con Habemus papam (2011) e Tre piani (2022). L’imperturba­bile attaccamen­to del protagonis­ta alla ideologia di sinistra ha confortato decine di elettori deragliati dal sistema politico, in una maschera grottesca e autoironic­a. Risate e grandi dibattiti divisivi nella malinconia testamenta­ria di un film assai godibile, ma dall’impianto piuttosto obsoleto. Ospitarlo in concorso è, ci si immagina, un tributo a un ex Palma d’oro (La stanza del figlio, 2001) ed ex presidente di giuria.

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