IL FESTIVAL RINASCE CON L’EFFETTO COCOON
Bellocchio e Loach ravvivano una rassegna altalenante, cui si aggiunge Scorsese, fuori concorso. Grande entusiasmo per i diseredati di Kaurismäki, interessanti Haynes e Anderson con la sua anarchica precisione. Glazer deludente
Far riprendere quota a un Concorso altalenante non era facile. Sono stati necessari i colpi d’ala di due ottantenni. In Rapito (vedi Escobar qui accanto) Bellocchio si avvale di un nitido disegno storico per acquietare demoni personali e ossessioni religiose che da sempre lo affollano. In The old oak Ken Loach rinnova e acuisce lo sguardo rivelatore con cui, attraverso le peripezie dei singoli, riesce a fotografare paesaggi sociali per lo più affliggenti. L’ultimo pub di una cittadina, già mineraria, semiabbandonata, è il luogo franco dove si scontrano e s’incontrano le umanità offese delle ultime famiglie locali e dei sopraggiunti profughi siriani: sapere che con The old oak il regista mette fine a una straordinaria carriera insinua un sovrappiù di intima malinconia.
Agli over ottanta che hanno sostenuto l’intelaiatura del Concorso andrebbe aggiunto Wenders (Perfect days), a cui mancano poche stagioni. Non è un segno di vitalità per un’arte che sta perdendo il controllo del proprio destino. Del resto l’intero Festival, sia nel glamour con Harrison-Indiana Jones, che nel culto di Scorsese, ha ricorso alla quarta età anche per elettrizzare le folle. Killers of the flower moon non è, come si pretende, il primo western del regista, ma la trasposizione della saga gangster dalla metropoli alla prateria, o meglio in un angolo dell’Oklahoma, dove, sotto i piedi della piccola tribù degli Osage, scorre olio nero. Il trapianto è riuscito e rimane intatta l’arte di raccontare i recessi più oscuri dell’animo umano, benché ai caratteri dei protagonisti manchino gli scarti e le impennate tipici di altre opere di Scorsese, già affidati alle corde di De Niro e Di Caprio. Più costruito che partorito – come è nella logica degli enormi capitali e dei 210 minuti – Killers of the flower moon ricorda come nel dna dell’avido capitalismo americano vi sia il furto ai danni dei nativi.
A sorpresa, gran parte delle pellicole hanno diviso. A fare eccezione è il film di Aki Kaurismäki, salutato da quell’entusiasmo contagioso che solo i film fuori d’ogni canone sanno scatenare. Foglie morte è una laconica tragicommedia chapliniana dagli scarni ma esilaranti dialoghi, dove la resistenza di una coppia di diseredati alla desolazione e all’avversità è innervata da un senso dell’assurdo di marca finlandese. Il film lascia una sensazione di benessere: quando si spengono le luci si vorrebbe solo che la proiezione (80’) ricominciasse: motivo sufficiente per una Palma coraggiosa. La presenza del cinema americano è stata assicurata soprattutto da registi europeizzanti come Todd Haynes e Wes Anderson. In May December, forma gergale per intendere un’importante differenza d’età in una relazione di coppia, una celebre attrice (Natalie Portman) incontra, per meglio incarnarla sullo schermo, la madre di famiglia (Julian Moore) che vent’anni prima ha scandalizzato mezza America seducendo un tredicenne, divenuto poi suo marito. Incontro con esito infelice per tutti: ovvero come Hollywood ruba e reinventa l’anima di esseri in carne e ossa per farne materia di sogno. Wes Anderson invece si compiace nella sofisticata confezione di compositi colorati tableaux vivants. La sua Asteroid city è la riproduzione in scala naturale di un immaginario plastico infantile in cui si muovono con anarchica precisione, come fossero pedine, star di primissimo piano, divertite complici del gioco solo apparentemente futile.
Fare della finzione cinematografica a partire dalla Shoah resta problematico. Lo dimostra The zone of interest in cui l’inglese Jonathan Glazer s’appoggia su uno scampolo dell’omonimo controverso romanzo di Martin Amis. La fredda ricostruzione della bucolica beatitudine in cui vive la famigliola di Rudolf Höss, responsabile del campo di Auschwitz, che ha fatto una dimora edenica della villetta sullo sfondo del fumo dei forni, vuole testimoniare l’orrore in absentia ma corre il rischio di evaporarlo. Tra i film che possono aspirare a una legittima memoria, se non a un premio immediato, Erbe secche in cui il turco Nuri Birge Ceylan, pur in una narrazione debordante dà vita a un dostoevskiano, conturbante personaggio di insegnante manipolatore. A uscire dall’anonimato della compagine francese è solo Anatomia di una caduta della regista Justine Triet, anche se la sua forza è racchiusa nell’esercizio consapevole del genere legalthriller.
Farenheith 9/11 i documentari erano stati esclusi dalla competizione. È stato probabilmente giusto tornare sulla decisione per Youth (Spring) dove Wang Bing osserva il brulicare di anime smarrite intorno al sordo rumore di migliaia di macchine da cucire stipate in angusti laboratori. La folla di immigrati stagionali anziché perdersi in una fluviale registrazione si racconta oltrepassando i confini previsti dall’autore cinese. Tre ore di ipnotico spettacolo.