FENDERE LA SUPERFICIE DELL’ABISSO
Èuno strano e bel libro, questo La voce del mare, per un verso simile al suo Inferni, mari, isole di vent’anni fa, per un altro vicino alla sua maniera poetica. Ha la qualità di una rapsodia e la struttura di una spirale, o piuttosto di un gorgo, come, per rimanere in tema, quello che si produce nell’affondare di una nave: il «turbo» dell’Ulisse di Dante, i «cerchi concentrici» che fanno scomparire il Pequod del Moby Dick di Melville. Gorgo, perché il percorso generale sembra muovere verso quell’esito, e gorgo o cerchi concentrici perché attraverso i suoi otto capitoli il lettore passa e ripassa per le medesime opere letterarie, ogni volta in luce leggermente diversa oppure collocate su piani differenti: dico l’Odissea, La Tempesta shakespeariana, il Robinson Crusoe, la Ballata del Vecchio Marinaio. Non che non ci siano momenti di volta in volta nuovi e sorprendenti: c’è, raccontato benissimo, l’episodio di Ceíce e Alcione dalle Metamorfosi di Ovidio, nel capitolo sulle sirene compaiono benvenute quelle della Repubblica di Platone, in quello sulle bonacce e le navi maledette il Benito Cereno di Melville e, più prevedibilmente, ma resa avvincente dalla narrazione, la Linea d’ombra di Conrad. C’è anche un gustosissimo capitolo sulla storia dei fari, da quello di Alessandria d’Egitto a soprattutto quelli inglesi e scozzesi, al quale manca stranamente solo Al faro di Virginia Woolf.
Credo però che gli eroi, o i luoghi centrali, del libro siano il Tuffatore di Paestum all’inizio, i Pirati, il Dottor Faustus di Marlowe, la Tempesta, e la Balena bianca del Moby Dick di Melville. Il primo risale all’inizio del V secolo a.C., più o meno all’epoca della battaglia di Maratona, e sembra rappresentare il «transito dell’anima verso la vita ultraterrena, un tuffo verso l’aldilà. E lo specchio d’acqua rappresenterebbe l’infinito del mare, o la palude Stige». La sua suggestione è senza pari, a meno di non associargli il canto di Ariele a Ferdinando nella Tempesta sul naufragio e l’annegamento (apparente) di suo padre Alonso re di Napoli e dei suoi compagni: «Tuo padre giace nel fondo, a cinque tese, / e già le sue ossa sono corallo, / perle quelli che furono i suoi occhi / Ogni ora le ninfe del mare / suonano a morto la campana per lui». Dopo, Mussapi veleggia verso la Tomba della caccia e della pesca di Tarquinia, anch’essa di quel periodo, nella quale compare un altro tuffatore; poi verso la storia di Acete nelle Metamorfosi, nella quale domina il terribile incontro con Dioniso; gli occhi e le polene delle navi, il pulpito di padre Mapple in Moby Dick, a forma di prua.
Guardare a, e fendere, la superficie dell’abisso nel quale tutti, spinti prima o poi da una forza irresistibile, ci tuffiamo e sprofondiamo. I pirati non hanno di queste preoccupazioni: legalmente autorizzati dalla corona inglese, assaltano le navi spagnole cariche d’oro e fanno la fortuna dell’Inghilterra elisabettiana, costruiscono il suo impero marittimo: fatto non tanto di colonie (ci sono anche quelle, come la Virginia e la Terra Promessa dei Puritani nel Massachusetts), quanto, all’inizio, di porti nei punti cruciali, in America, nei Caraibi e in Asia. Contemporanea alla “onnipotenza” del pirata è quella che persegue il Faustus di Marlowe, che per ottenerla è pronto al patto d’immunità della durata di ventiquattro anni col demonio Mefistofele: «senza la nascita del tipo psicologico del pirata, nella forma eccessiva e degenerata, prototipo di egotismo assoluto, non comprenderemmo l’egotismo di Faustus». Anche il Prospero di Shakespeare è sapiente e mago come Faustus, ma Prospero si redime col perdono e l’abiura, la sua isola misteriosa diviene una sorta di Purgatorio, o Paradiso Terrestre, dantesco.
A ognuna delle 118 pagine della Voce del mare un leggero capogiro prende il lettore, vuoi per il costante ruotare intorno agli stessi libri, vuoi per le improvvise svolte e le associazioni a tutta prima spontanee che lo caratterizzano – quasi fossimo in una sorta di monologo interiore al modo dell’Ulisse di Joyce. Ma in nessun luogo è questo più evidente che nell’ultimo capitolo, «Le isole del tesoro», e soprattutto nel crescendo del terzultimo, «La balena di Moby Dick». Libro sacro, lo chiama Mussapi,
OTTO INTENSI CAPITOLI DI ROBERTO MUSSAPI SUL LEGAME TRA LETTERATURA E ABISSI
l’unico scritto in Occidente dopo la Commedia di Dante. Per capirlo, bisogna sprofondare negli abissi, entrare nelle caverne «dove i nostri antenati dipingevano cavalli e bisonti» e nell’antro della Sibilla; occorre leggere di Giona nella Bibbia, e di Robinson Crusoe in Defoe, e di nuovo della Tempesta. Ma Moby Dick è un mostro orrendo e nello stesso tempo un «grand god», un grande dio, bianco come il vuoto. Per Achab, il capitano che le dà la caccia, Moby Dick è «il muro che gli è stato spinto accanto»: «Talvolta penso – dice – che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Essa mi occupa, mi sovraccarica: io vedo in lei una forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile». È la «intangibile malvagità che è stata al principio delle cose». Sulla gobba bianca della balena, Achab accumula «la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza dal tempo di Adamo». Il viaggio del Pequod è, scrive Mussapi, un viaggio agli inferi, nel buio. Ma se la ciurma del Pequod rappresenta, con la mescolanza delle sue etnie, l’America, la trasgressione della ciurma che segue Achab indica la trasgressione originale dell’America stessa, costruita sulla conquista e il sopruso. Perciò, tutto l’equipaggio perisce con il capitano, con l’eccezione di Ismaele, che deve narrare la storia e si salva restando aggrappato a una bara: la bara dell’amico, il selvaggio «cannibale» Quiqueg. I cerchi concentrici del gorgo avvolgono le lance e, «facendo girare le cose vive e quelle inanimate», travolgono «anche il più piccolo avanzo del Pequod». Poi, «tutto ricade, e il gran sudario del mare torna a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa». Ecco a cosa può giungere la sua voce.
Roberto Mussapi
La voce del mare. Storie di viaggi, isole e naufragi Marietti 1820, pagg. 118, € 17